“Zitelle”, dolori e trionfi di donne “vertiginose”

Firenze – Valeria Palumbo, nota giornalista e storica delle donne, (tiene corsi e laboratori universitari collabora con radio, tv ed enti culturali)  ha pubblicato molti libri di successo che parlano appunto dell’universo femminile con titoli spesso tranchant o provocatori come, ad esempio,  La perfidia delle donneSvestite da uomo, Le figlie di LilithLa divina suocera,  e il recente Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle   edito da Enciclopedia delle donne

 Cita, zita, zitella: una parola antica che indicava la ragazza non maritata, diventata un insulto nell’ambito di una società patriarcale che, per una donna, ha faticato ad accettare destini diversi dal matrimonio. 

E  il libro  parla, infatti, della scelta  di restare nubili spaziando dalla mitologia alla storia . Da Circe e Calipso, quindi  alle Amazzoni alle Vestali, da Ipazia a Pulcheria, dalla regina Elisabetta I a Cristina di Svezia, da Jane Austen a Virginia Woolf, e con  incursioni nel mondo del mito, della fiaba e del fumetto – tra Morgana, la Dama del lago, Maga Magò e la Fata turchina. L’autrice ci accompagna, con uno sguardo divertito e spietato, attraverso la complessa vicenda di chi non ha camminato lungo il binario definito. Spesso per ribellione, a volte per indole o per puro caso.  

In questa intervista con Valeria Palumbo  abbiamo sottolineato alcune delle problematiche  affrontate dal libro il cui titolo Piuttosto m’affogherei, non allude al rifiuto della  condizione di zitella ma anzi è un grido di ribellione al matrimonio.           

D. Un libro  inconsueto. Perché questo  excursus sul ruolo delle donne nubili   nel corso dei secoli ?

R: Perché parlare di nubilato femminile significa due cose. Primo: parlare di libertà. E di come, pur in contesti oppressivi, le donne siano sempre riuscite a ritagliarsi spazi di autonomia. Secondo: perché la pretesa dei conservatori che la famiglia borghese occidentale tipica dell’Ottocento-Novecento sia un modello universale di convivenza umana non ha alcuna base storica. In verità, volenti o nolenti, abbiamo sviluppato molti modi di stare insieme. O di star soli. Devo dire che pochi sono stati favorevoli alle donne.

D. In che senso, dunque, una storia “vertiginosa” ?

R: Perché la vicenda delle non-maritate è varia, imprevedibile, complessa. E perché l’ho dovuta percorrere velocemente. Un saggio non riesce mai a contenere tutto. In genere si tende sempre a semplificare la Storia. Ma una Storia “semplice” non esiste. A complicare poi le cose per le donne subentra il problema che il monopolio del racconto è stato maschile: noi storiche e storici delle donne dobbiamo fare un vero “carotaggio” per leggere, sotto la loro versione, la realtà. Per fortuna, appunto, le fonti si possono incrociare e confrontare. L’importante è non fermarsi soltanto a quelle scritte e a quelle canoniche: le vicende storiche lasciano molte tracce. Bisogna volerle cercare.

D. Hai scritto che dalla metà dell’800 il termine “zitella” pare custodire solo scherno e commiserazione …ma è vero che in altre epoche è stato anche un vezzeggiativo  ? 

R: L’uso della parola “zitella”, intesa come “attempata non maritata”, è ottocentesco e deriva forse dal fatto che le prostitute romane, per invitare i clienti e rassicurarli sul fatto che fossero giovani e addirittura vergini e quindi non avessero contratto malattie (in particolare la sifilide), dicessero “So’ zitella”, per dire sono una ragazza. Zita-zitella in quasi tutti i dialetti italiani significa appunto ragazza. C’è stato un curioso slittamento di significato (con i termini relativi alle donne succede spesso, basti pensare a “putta”, ragazza” e “puttana”).

D. Ma allora il  termine “zitella” era   considerato sinonimo di vergine ? 

R: Solo in parte. La “zitella” in quanto appunto ragazza, era considerata “candidata sposa” e quindi si supponeva che fosse anche vergine. Invece non si tratta di sinonimi, nemmeno sotto la cappa cattolica che ha dominato il nostro Paese. Senza contare che la “verginità”, oltre a essere una sorta di dote imposta solo alle donne per rassicurare gli uomini sul fatto che avrebbero allevato figli propri, ha costituito anche un concetto astratto. Pensiamo soltanto all’idea di una “vergine-madre”. Comunque nel sonetto del 1832 Er Zitellesimo, Gioachino Belli è tra i primi a usare la parola “zitella” con un significato ambiguo ragazza-vergine-non maritata. Col tempo divenne soltanto “non-maritata” e anche “non-maritata attempata”. Il che non significava affatto essere vergine. Con tutte le drammatiche conseguenze che le maternità fuori dal matrimonio comportavano. Intendiamoci: soltanto per le donne. Gli uomini non avevano alcuna responsabilità verso i figli nati fuori dal matrimonio né alcun dovere verso le donne né subivano alcuna condanna morale.

D. Per quale motivo nei secoli scorsi, quando  al centro della vita sociale c’era il matrimonio, molte donne restavano  zitelle?

R: Per mille motivi ed è proprio quello che racconto: perché (faccio soltanto qualche esempio) preferivano restare in comunità femminili come gli Ospedali veneziani, in cui apprendevano alcune professioni, diventavano addirittura musiciste, e vivevano in autonomia.  Perché non avevano una dote: il matrimonio era un business, una questione di alleanze, altro che amore. Perché erano autonome, magari grazie alla prostituzione, e quindi non avevano bisogno di sposarsi. Perché non amavano gli uomini, o amavano le donne. Perché in molte famiglie a una figlia veniva affidato il compito di restare in famiglia e occuparsi prima dei fratelli e poi dei genitori anziani. Perché, senza prendere i voti, sceglievano una vita di tipo monacale. Spesso restando in casa: a volte era l’unico modo di rifiutare un matrimonio forzato. Perché preferivano la loro libertà (di scrivere, vedi Jane Austen, di dipingere, vedi Orsola Caccia, e via dicendo) alla “schiavitù” imposta dal matrimonio e dai continui parti.

D. Tra questi motivi quanto pesano gesti di ribellione di tipo “protofemminista”  che in varie epoche contribuirono a modificare il costume ? 

R: Non uso quasi mai il termine “femminista” fuori dai contesti novecenteschi. Anche se è vero che nel Cinquecento, a Venezia (per fare un esempio) fiorì una letteratura femminile in difesa delle donne e in polemica con una pletora di autori misogini, che ha tutti i caratteri del più moderno femminismo. Detto questo se utilizziamo l’espressione “aspirazione alla libertà”, sì: molte donne erano ben consapevoli che il matrimonio, per colpa delle leggi che lo sostenevano e della mentalità patriarcale che lo circondava era una forma di schiavitù. Non a caso il titolo del mio libro è una citazione: da Il merito delle donne di Moderata Fonte (pubblicato postumo nel 1600) che è un “dialogo”, ossia un pamphlet fatto di più voci in cui si inneggia alla libertà delle donne e si condanna la schiavitù del matrimonio. Tanto che la protagonista risponde, all’invito a risposarsi (è una giovane vedova): «Piuttosto m’affogherei». Io credo che la questione vada ribaltata: se non fossero state costrette, quante donne si sarebbero sposate? 

D. Nei secoli scorsi le    “zitelle “  erano  nubili per  scelta o per necessità. Ma qual era la loro condizione sociale?

R: Il divieto imposto alla donne di accedere a quasi tutti i mestieri e soprattutto alle professioni più quotate (e prima ancora di studiare), relegavano spesso le nubili ai gradini più bassi della società. Non a caso in Gran Bretagna spinster, filatrice, era anche usato con il significato di “zitella”: era un mestiere umile, riservato, appunto, spesso alle non sposate.

D. Anche personaggi mitologici come Calipso e Circe possono essere definite zitelle ?

R: Se usiamo il termine in modo scherzoso, come piace fare a me, sì: sono fiere single che si scelgono i loro partner. La storia di Circe meriterebbe un libro a sé: e in effetti ne esistono e di bellissimi, come Il mito di Circe di Maurizio Bettini e Cristiana Franco (Einaudi). Circe vive in una comunità di sole donne, che ricorda il Tiaso di Saffo ma anche i successivi cenacoli di matrone romane e i conventi pre-Controriforma: vere polis di sole donne, in cui gli uomini sono figure del tutto di contorno. 

D. A questo proposito scrivi che Ulisse non fece certo una bella figura…

R: Assolutamente sì: Ulisse, tra lacrime e sotterfugi, appare debole e dipendente. Questa è una delle contraddizioni, interessantissime, del mondo greco classico: era un mondo misogino ma produceva magnifici miti femminili.

D. C’è anche un parallelismo  tra nubili e femmes fatales ?

R: Non necessariamente: certo è che lo scherno ai danni della nubile, della “zitella”, nasconde una paura diffusa, quella della libertà sessuale femminile. Bisognava in tutti i modi esorcizzare questa paura, dire che soltanto all’interno del matrimonio le donne potevano esercitare un “sesso onesto”, per evitare ciò che nella società patriarcale fa più paura: che le donne decidano di sé e del proprio corpo. Sotto è implicito (e torniamo a Circe) la paura che lasciate “libere” le donne tendano a sopraffare gli uomini. La “femme fatale”, che è un mito tutto maschile che le donne, soprattutto attraverso il cinema, hanno saputo volgere in loro favore, è appunto una donna che non si fa usare ma che, attraverso il suo potere di seduzione, usa gli uomini. Nei romanzi maschili (e in molti femminili) finiva molto male.

D. Perché  a Venezia esiste una chiesa delle zitelle ?

R: In tutta Italia c’erano istituti dove venivano rinchiuse le ragazze giudicate “pericolanti”: ovvero, in un rovesciamento che dice tutto della doppia morale sessuale, erano ragazze che poiché non avevano una famiglia solida alle spalle potevano “perdersi”. In realtà è abbastanza vero che, essendo loro precluse gran parte delle professioni, le ragazze povere non avevano spesso altra scelta che prostituirsi (a Venezia c’erano a fine Cinquecento circa 10mila prostitute, il 10% della popolazione). Sarebbe bastato permettere loro di mantenersi con altri mestieri e non sarebbero più state “pericolanti”. In questo caso comunque “zitelle” sta proprio per ragazze.

D. Quale  l’importanza  delle scuole   «a benefizio delle zitelle povere della città di Firenze» istituite da  Pietro Leopoldo ?

R: Notevole per tre motivi. Perché si offriva loro un’istruzione: nel Settecento non era un’eccezione per le ragazze di buona famiglia, lo era di sicuro per quelle povere. Perché, si insegnava loro un mestiere e questo, come accennavo prima, le sottraeva al rischio della prostituzione. E perché erano scuole laiche, con insegnanti laiche che a loro volta vivevano del loro lavoro.

D. Tra i tuoi personaggi  preferiti, due nomi poco conosciuti : Catalina  la “monaca alfiere” e Juana Ines de la Cruz. Chi sono  ?

R: Di Catalina  me ne sono occupata molto, anche in Svestite da uomo (Bur), la “monaca alfiere” è stata un personaggio picaresco, dalla vita così avventurosa che per lungo tempo si è negato che le sue memorie fossero vere: in pieno Seicento fuggì dal convento in cui era stata rinchiusa da bambina, si vestì da uomo, fuggì in America Latina e combatté contro gli indios. Alla fine il papa la premiò, dopo una serie incredibile di vicissitudini. È un’eccezione, ma in realtà non si tratta di un caso isolato: molte donne si sono vestite da uomo nei secoli per combattere. O semplicemente per avere la libertà degli uomini.  Juana Ines de la Cruz è stata una grande intellettuale messicana, del Seicento, che volle farsi monaca per evitare il matrimonio (fra l’altro era lesbica), che si batté per il diritto alla studio delle donne e per il suo di scrivere di teatro. Alla fine, quando le fu imposto di rinunciare ai suoi libri, si lasciò di fatto morire, assistendo i malati. Il Seicento che fu un secolo buio per molti motivi, a cominciare dalla Controriforma, una vera scure che si abbatté sulle donne dei Paesi cattolici, vanta invece alcuni straordinari personaggi femminili che hanno vissuto in modo del tutto anticonformista. E ne hanno pagato il prezzo.

D. In copertina  Greta Garbo. Perché ?

R: Perché era fiera di essere “scapolo” (così diceva, non “nubile”). Forse non una grande attrice, almeno non grande come Marlene Dietrich e nemmeno altrettanto “scandalosa”, ma sicura delle proprie scelte e delle proprie decisioni. Tra le quali, appunto, non sposarsi mai. In copertina è nei panni di Cristina di Svezia: magnifica regina svedese del Seicento (a proposito di quello che dicevo prima), che rinunciò al trono pur di non doversi sposare, visse libera. E continuò ad amare il potere, le arti. E le donne.

 

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