La giornata internazionale contro la violenza sulle donne che ricorre il 25 novembre offre importanti spunti di riflessione ma soprattutto spinge a porsi delle domande: se cioè quanto fatto dalla società in cui noi viviamo per salvaguardare le donne che denunciano i loro maltrattanti è abbastanza oppure se, come riportano impietosamente i numeri sui femminicidi, siamo ancora lontani nel nostro Paese da quell’effettivo cambio di passo culturale che può fare la differenza.
Perché in fin dei conti di cultura si tratta, che deve essere accessibile a tutti, senza barriere, perché ogni donna deve essere libera di cambiare e di poter decidere cosa fare della sua vita. Una possibilità di scelta che però fu negata a Hina Saleem e Sana Cheema, giovani pachistane residenti in Italia, che per aver detto “no” al matrimonio combinato, e rifiutato di sposare l’uomo scelto dalla famiglia, furono uccise. Un’usanza di una brutalità inaudita che a quanto pare le famiglie integraliste impongono ancora oggi alle loro giovani donne islamiche che osano “vivere all’occidentale”.
In Italia per le famiglie straniere che arrivano nel nostro Paese, imparare a convivere senza pregiudizi con la nostra cultura e le tradizioni non è certamente facile. E sono le figlie ad apprendere meglio i nostri usi e costumi,le più giovani, specie soprattutto se nate o se trasferite in Italia da molto piccole; in generale, per loro è molto più semplice assimilare modi di vita diversi da quelli tradizionali, che diventano motivo di inclusione e socializzazione per sentirsi parte di un gruppo e non piuttosto emarginate o discriminate. Ma a quanto pare le cose,però, si complicano quando lo stile di vita delle ragazze non segue i precetti religiosi della famiglia di appartenenza.
Tuttora elemento fondante della società in moltissime aree del mondo, l’arcaica usanza del matrimonio combinato, ( si stima che le comunità straniere in Italia siano responsabili di circa un migliaio di matrimoni combinati, o forzati), che mina la libertà individuale, sancita dal diritto internazionale. Un tipo di unione lontana dalla moderna idea di coppia finché non si apprende dai media di ragazze che pur vivendo nelle nostre stesse comunità, che frequentano le scuole, che lavorano e che escono fuori a divertirsi, diventano improvvisamente vittime di quest’imposizione da parte dei loro padri, ancora fortemente radicati alle proprie tradizioni al punto da voler decidere il destino della figlia e con chi lei dovrà passare il resto della vita. La ribellione di queste ragazze che ormai hanno assimilato la capacità di decidere autonomamente che sarebbe impensabile nella loro terra improntata al patriarcato,fa accadere purtroppo qui da noi il dramma.
E così come Hina e Sana anche Saman la giovane pachistana di Novellara scomparsa da casa un anno e mezzo fa perché si era opposta ad un matrimonio forzato, ha pagato con la vita il suo rifiuto ad un matrimonio forzato. Innamorata di un ragazzo poco più grande di lei anch’egli pachistano, probabilmente conosciuto in chat, voleva andarsene da casa e vivere con lui la sua storia d’amore e non sposare un cugino in Pakistan come invece gli aveva imposto il padre. Il suo rifiuto è stato fatale. Saman improvvisamente scompare nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio molto probabilmente uccisa dallo zio Danish Hasnain a cui era stata affidata con l’inganno dai genitori.
All’indomani della scomparsa della loro figlia, quei coniugi erano fuggiti in Pakistan e di loro si erano perse le tracce. Ma pochi giorni fa la notizia dell’arresto del padre di Saman, accusato in Italia dell’omicidio e occultamento di cadavere della figlia, con la moglie (ancora latitante), lo zio e due cugini di Saman (i tre sono già stati arrestati), anche se sulla estradizione di Shabbar Abbas, in vista del processo il 10 febbraio prossimo, dovranno esprimersi le autorità federali pakistane.
Intanto si è ormai certi che i resti umani ritrovati in un casolare abbandonato non molto distante dalla casa degli Abbas, ed indicato dallo zio di Saman, sarebbero della giovane Saman. E il fidanzato Saquib Ayud che vive attualmente sotto protezione perché i suoi familiari furono all’epoca minacciati di morte in Pakistan, ha fatto sapere che è certo della morte di Saman, ma che spera che se i resti ritrovati in quel sacco nero fossero di Saman, di andare finalmente a pregare sulla sua tomba.
In foto Saman Abbas