di Anna Ferrentino (AF-F)
La Villa dei Misteri è un antico sito archeologico di Pompei. Riportata alla luce parzialmente nel 1909, compiutamente nel lontano 1930, ad opera di Amedeo Maiuri, allora sovrintendente alle Antichità di Napoli e del Mezzogiorno. Il complesso risale all’epoca romana, II secolo a.C. ed è una delle più celebri e suggestive residenze pompeiane. Un esempio mirabile di commistione tra villa d’otium (spazio dell’anima e il luogo dei piaceri del corpo), e villa rustica. Fu sepolta sotto le ceneri dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. e si estende su una vasta area e presenta diverse strutture, tra cui un peristilio, un triclinio, una cucina e numerosi ambienti residenziali. Situata a circa 800 metri da Porta Ercolano, la villa si distingue per la sua posizione privilegiata su una piccola collina, da cui, un tempo, si godeva di una magnifica vista sul mare e sul Vesuvio. Facilmente accessibile, anche a piedi, percorrendo gli scavi del sito archeologico di Pompei, il sentiero è arricchito dalla presenza di piante di rosmarino selvatico che emanano un aroma avvolgente.
La Domus, in un primo momento fu chiamata Villa Item, fu sepolta sotto uno strato di cenere e roccia vulcanica chiamata pomice che ha preservato i corpi e le scene delle vittime della distruzione della città come una “spettrale capsula del tempo”. In effetti se si pensa ai corpi inceneriti appaiano come “guardiani silenziosi” di una vita trascorsa che nel tempo sono stati elemento di ricostruzione di una civiltà inconsueta. Due “calchi” che sono custoditi in bolle di vetro visibili in una delle stanze che emanano la sensazione raffigurativa del trapasso tra vita e morte.
Durante lo scavo della villa non furono ritrovati oggetti di particolare interesse, ma emersero delle “pareti” di una straordinaria realtà artistica. Dipinti considerati tra i migliori esempi di arte pompeiana offrono un’importante finestra sulla vita e le credenze dei romani; una popolazione indoeuropea di ceppo italico e appartenente nello specifico al gruppo dei popoli latino-falisci. Gli archeologi di allora constatarono che la copertura vulcanica aveva protetto le “stanze affrescate”, custodendo così un “mistero” di cui prese il nome la villa.
Emerse una parete di 17 metri di lunghezza e 3 metri di altezza con la raffigurazione di riti misterici legati al culto di Dioniso, dio del vino e della fertilità, mentre per i Romani “dio Bacco”, “colui che scioglie l’uomo dai vincoli dell’identità personale”; nei misteri eleusini veniva identificato con Iacco: Dio “ibrido” dalla multiforme natura maschile e femminile, animalesca e divina, tragica e comica. In questo caso Dioniso incarna nel suo delirio mistico la scintilla primordiale e istintuale presente in ogni essere vivente, che permane anche nell’uomo civilizzato come sua parte originaria e insopprimibile.
Un “contenitore” quello che vediamo, dalle caratteristiche simboliche, con un ciclo pittorico composto da circa 29 personaggi e sono quasi tutti a grandezza naturale con uno stile che si rifà ai modelli greci classici. Umani e dei, tutti assieme in una apparente unica “scena” che, forse il pittore, sconosciuto, voleva comunicare o trasmettere le regole del rito, a partire dall’iniziata, seguendo un semplice e lineare processo liturgico, del quale ancora oggi non se ne ha certezza. La panoramica narrativa mitologica con figure femminili che svolgono ruoli chiave in una sorta di cerimonia misterica, delinea un tratto dominante. Ad esempio la coppia divina posta al centro della parete di fondo, in cui si identificano Dioniso e Afrodite al di sopra di uno zoccolo decorato a “finto marmo” che funge da podio. Raffrontiamo la “tela” che si divide in due temi interrelati, da un lato il mondo di Dioniso e l’iniziazione ai suoi Misteri, dall’altro la preparazione della fanciulla alle nozze: la toletta di una sposa e una donna ammantata seduta la domina. Il culmine della tensione narrativa è raggiunto nella scena rituale in cui una donna inginocchiata scopre il fallo con un personaggio alato intento alla flagellazione mentre come sfondo abbiamo una “menade” del corteggio di Dioniso che danza. L’autore non ha trascurato la particolarità dei riti dionisiaci, caratterizzati dall’ebbrezza del vino, dalla musica, dalla danza; satiri e baccanti e alter ego mitici degli adepti.
Inoltre il simbolismo stesso del rito dionisiaco è visibile attraverso l’“amorino” che tiene lo specchio rivolto apparentemente alla donna seduta, mentre si evidenza che è indirizzato allo spettatore. Oppure, ancora, il ramo di mirto che cinge il capo o sindone ossia il velo che la donna indossa al di sopra della veste e che è uguale a quello che ricopriva i resti degli iniziati nelle tombe orfiche; un bambino nudo che legge un rotolo di papiro; una donna con un vassoio colmo di cibo; un satiro che suona la lira; una danzatrice con le nacchere e un’altra donna che si intreccia i capelli sono i rappresentanti di una leggenda nascosta. Inoltre, vengono raffigurate anche le quattro stagioni. Nella Primavera ritroviamo una donna incinta nell’atto di offrire delle vivande sacre a Cerere; con l’estate troviamo l’immagine della fanciulla che è priva della corona di mirto; la matrona stessa ritratta di spalle e seduta rappresenta l’inverno; la donna che versa l’acqua della fonte con richiamo al fiume Nilo, si veste d’autunno.

Oltre al simbolismo dionisiaco, anche la manifestazione dei dettagli lascia intendere un mistero affascinante, ad esempio la posizione della mano, le braccia in crociate senza una regola anatomica precisa, le espressioni a tratti intense, la lunghezza dei tessuti, le forme e la “distorsione” degli oggetti: “Arianna mostra un anello simile al quarto dito o della mano sinistra; un velo a volte color ocra, a volte giallo, a volte verde scuro copre la scena posteriormente e si prolunga fino al pavimento, fin quasi al bordo inferiore e tutto il tessuto è orlato da un decoro di perline nere. Dioniso tra le braccia di Arianna ubriaco perde una scarpa, la destra. Arianna mostra una calzatura simile al dio vesuviano. Il demone nero alato indossa due splendidi stivali in cuoio decorato, ma uno è più alto e l’altro è più basso. Il vecchio Sileno pizzica le corde con la sinistra e regge nella destra un pezzo di cuoio”.
Dettagli e colori che si sollevano sulla stessa pavimentazione fatta di mosaici che esaltano la bellezza della narrazione. Oggi l’accesso al pubblico dell’abitazione degli Istacidii è vincolata; la delicatezza del pavimento necessita di protezione visto anche il lavoro di restauro che stato fatto negli anni.
Gli antichi Romani utilizzavano tecniche di affresco che prevedevano la stesura dei colori su intonaco fresco. Questi pigmenti, una volta asciutti si legavano con il supporto rendendo le opere più durevoli. I primi interventi di “micro-restauro” risalgono a prima a del ‘900, ma i più recenti sono iniziati nel maggio del 2013 e si sono conclusi nel 2015 e hanno interessato tutti gli apparati decorativi, mosaici e pitture, degli oltre 70 ambienti in cui si articola la Villa.
Gli interventi finanziati con fondi ordinari della Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia per un importo di circa 900.000 euro sono serviti a custodire un patrimonio dell’Unesco. L’artista dipinse le vesti dei personaggi con sfumature di viola di varie tonalità, dando una raffinatissima ricchezza cromatica al dipinto. Il restauro contemporaneo ha asportato le velature lasciando solo la base viola monocromatica. “Nello specifico sono state eseguite: termografia a infrarossi (IR), GPR (Ground Penetrating Radar), misure ad ultrasuoni, esame XRF, spettroscopia Raman; con l’utilizzo di una tecnologia d’avanguardia di pulitura mediante strumentazione laser: consente un’efficiente rimozione dei diversi strati protettivi utilizzati nel tempo, dimostrandosi un valido complemento alla pulitura chimica e meccanica”. Oggi il sito archeologico è gestito e monitorato per ridurre l’impatto di fattori esterni: come l’umidità e l’inquinamento che potrebbero danneggiare le opere.
Foto di Anna Ferrentino (AF-F) e Alain Guariglia