Venti di guerra: così anche l’esercito italiano cambia pelle

Il genere umano sta scherzando con il fuoco

Cosa hanno in comune il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto, il capo della Difesa norvegese Eirik Kristoffersen, l’ammiraglio Rob Bauer, presidente del Comitato militare della Nato, il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, il ministro della Difesa del Regno Unito Grant Shapps, la premier estone Kaja Kallas, il capo di stato maggiore dell’esercito francese Thierry Burkhard, il premier polacco Donald Tusk e il generale Patrick Sanders, capo di stato maggiore dell’esercito del Regno Unito?

Uno per volta, negli ultimi giorni hanno tutti dichiarato che l’Europa deve prepararsi velocemente a una guerra – convenzionale, ibrida, cibernetica? – contro una probabile aggressione della Russia o dei suoi alleati, diretti o indiretti. Il tempo della pace – affermano i governi – potrebbe essere finito. Ci si può ridere sopra, fare spallucce, fischiettare come se niente fosse, considerarli come delle persone che menano e portano cose grame e di sventura o, alla peggio, dei guerrafondai. Si può anche proseguire a dedicare il proprio tempo libero alla politica locale, o alle prossime vacanze, continuando a pensare che questo è il migliore dei mondi possibili, considerare il proprio privato superiore a tutto e il pubblico attività da avanspettacolo, però nel semestre elettorale in arrivo un colpo d’occhio d’insieme ai sistemi di difesa europei si mostra ormai necessario e inevitabile.

Si vis pacem para bellum!

Il nostro esercito, pertanto, ha già iniziato a prepararsi. L’attenzione dell’opinione pubblica – se ancora esiste una opinione pubblica capace di interpretare anche il senso più cupo della contemporaneità – è concentrata su altre questioni. Nel mentre, però, anche in Italia come in altri paesi europei è in corso un adeguamento legislativo relativo al tema dell’impiego delle forze militari nazionali all’estero, nonché il potenziamento interno di alcuni settori strategici con la creazione di brigate specializzate in guerre ibride, cyber-war, droni e compagnia bella.

L’Italia, oltre all’ormai famosa missione “difensiva” nel mar Rosso, dispone di una forza di circa 8mila militari dispiegati in 24 nazioni: dal Baltico al Corno d’Africa, sotto bandiera Nato, Onu o direttamente italiana. Non sono pochi. Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che modifica la disciplina della partecipazione italiana alle missioni internazionali, permettendo al nostro esercito di intervenire con nuove “forze ad alta e altissima prontezza operativa” da impiegare al verificarsi di “crisi o situazioni di emergenza”. Inoltre, sono stati previsti investimenti per 400 carri armati nuovi di zecca, inseriti nel Documento di Programmazione Pluriennale, per un importo pari a circa 24 miliardi di euro.

Piccoli adeguamenti nella direzione di stare al passo con i tempi (di guerra). Niente di eccezionale. Del resto, i sunnominati tempi di guerra non consentono altre vie. La disciplina del peacekeeping è stata riposta in un cassetto e le forze multinazionali non indossano più caschi di colore blu. Il punto, però, è un altro. L’opinione pubblica non viene ancora adeguatamente informata dei cambi di pelle del nostro esercito. E, in fondo, la nostra è ancora una democrazia.

I labili confini del diritto internazionale

C’era una volta il diritto internazionale ripartito in due branche distinte: diritto internazionale di pace e diritto internazionale di guerra. Il diritto di ricorrere alla forza armata (jus ad bellum) veniva considerato come parte del diritto internazionale di pace, mentre il diritto relativo alla disciplina delle ostilità tra belligeranti e delle relazioni tra questi e terzi Stati (jus in bello) faceva parte delle trattazioni di diritto internazionale bellico.

Con l’entrata in vigore della Carta ONU, che ha bandito la guerra nelle relazioni internazionali (ok, prendiamola per buona), l’incertezza circa l’esistenza di un vero e proprio stato di guerra ha indotto a trattare il diritto bellico nel quadro del diritto internazionale di pace, spesso in una parte separata dedicata al diritto dei conflitti armati. Quest’ultimo, nelle trattazioni più recenti, viene qualificato come diritto internazionale umanitario e comprende anche il cosiddetto diritto dell’Aja e il cosiddetto diritto di Ginevra: le varie convenzioni relative alla protezione dei prigionieri, delle vittime e della popolazione civile.

Infine, più recente ancora, è nato il diritto relativo al disarmo e al controllo degli armamenti, il quale però non trova una chiara collocazione tra diritto internazionale di pace e diritto internazionale bellico. Fin qui la dottrina giuridica. Nella pratica, mi chiedo, dopo aver sparato un razzo contro il nemico, l’autore del lancio si chiederà anche a quale cavolo di branca del diritto internazionale quel lancio debba poi rispondere? Hersch Lauterpacht è stato un famoso giurista britannico, consigliere al processo di Norimberga. Sostenne che “Se il diritto internazionale è in un certo senso il punto di evanescenza del diritto, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale” (in “The Revision of the Law of War”).

Affermazione quanto mai vera se la leggiamo con gli occhi della nostra contemporaneità. In base al diritto internazionale dei conflitti armati, infatti, la guerra è parte della teoria del diritto come regola della forza e deve rispondere a due criteri: la legittimità, come giustificazione del titolo di un diritto, e la legalità, come disciplina dell’esercizio di un diritto. La giustificazione si richiama a tre tipi di guerra: guerra di difesa (come previsto anche dall’articolo 11 della nostra Costituzione); guerra come riparazione di un torto; guerra punitiva. La disciplina, invece, identifica cinque ambiti del diritto di guerra, il vero e proprio jus in bello: chi sia autorizzato a compiere atti di guerra; su chi e su che cosa possano essere compiuti; con quali mezzi; in quali forme; in quale misura.

Riassumendo: una guerra per essere giusta deve essere sia legale che legittima. Fin qui il diritto internazionale dei conflitti armati, che fa parte del diritto internazionale di pace. Se però consideriamo come regola generale anche quella dei mezzi a disposizione dei belligeranti, scopriamo che in fondo la guerra è utile solo al più forte. E se andiamo a leggere con questa griglia interpretativa le guerre in corso nel mondo, non ne troviamo una, dico una, che risponda ai titoli di diritto attualmente riconosciuti. Sono tutte guerre legittime dalla prospettiva del potere sovrano, ma illegali ai sensi del diritto bellico.

La dottrina della guerra giusta

La dottrina della guerra giusta è immensa. Per il filosofo torinese Norberto Bobbio – che per sua stessa ammissione si dichiarava persona con tendenze apocalittiche – una guerra non ha lo scopo di far vincere chi ha ragione, ma di dar ragione a chi vince. La guerra “giusta” di ispirazione giusnaturalista è solo un bluff. Il positivismo giuridico, infatti, ha cambiato le carte in tavola distinguendo la legittimità dalla legalità della guerra, concetti giuridici (e morali) fusi insieme nel pensiero giusnaturalista. Nei fatti, però, la guerra “giusta è oggi tornata di gran moda, e stoltamente, a mio avviso, sta dividendo l’opinione pubblica.

Le motivazioni, infatti, spostano l’attenzione dal problema centrale, il fenomeno dell’uso della forza come strumento di relazione tra gli Stati. Una formula del “bellum iustum”, ci racconta Danilo Zolo nel suo Cosmopolis, un saggio sul nuovo ordine globale uscito nel 1995, deriva direttamente dalla “casuistica”, una branca della teologia morale. È la regola del “doppio effetto”, che unisce due impulsi cristiani molto contraddittori: mitezza e impulso da crociata. La regola del doppio effetto autorizza l’uccisione di persone disarmate e innocenti purché l’evento non sia direttamente voluto, anche se prevedibile come conseguenza indiretta di un’azione di guerra “giusta”.

L’uccisione certa e consapevole di civili sarebbe pertanto lecita purché non sia voluta. E come si fa a rispettare la proporzionalità morale della dottrina generale del “bellum iustum”? Semplice. Per non violare la regola è sufficiente compensare l’uccisione (non intenzionale) di migliaia di civili con l’uccisione (intenzionale) di migliaia di unità del nemico. Il doppio effetto, una catena infinita. Qual è però il valore giuridico di eliminare i non-innocenti, cioè i colpevoli? Dove finisce la proporzionalità della reazione? Nelle eventuali risposte sono contenuti i limiti del realismo etico di una certa visione del pacifismo istituzionale.

Un mare magnum percorso dalle correnti più bizzarre: dalle numerose teorie della guerra giusta, o almeno giustificata, tra cui quella di Michael Walzer,  alla dottrina dell’”orrore limitato” (un’agenzia di “global constitutionalism” che consegna ordigni nucleari a una polizia internazionale per garantire l’ordine mondiale, la “pace”); dalla sovrana autocrazia mondiale al normativismo etico della “civitas maxima”; dal diritto cosmopolitico di matrice kantiana alla regola del “doppio effetto”; dal cinismo del realismo etico a quello della teologia morale della scolastica medievale.

Il pacifismo istituzionale è materia diversa dal pacifismo giuridico. Danilo Zolo osserva che “L’aggressività e la guerra sono così radicate nella natura biologica dell’homo sapiens – e comunque così presenti nella sua storia evolutiva – da dover essere considerate del tutto naturali e, al limite, funzionali”. Tutto ciò, seppur giustificato dalla dottrina morale della guerra giusta, non è accettato dal diritto penale internazionale. Per questa ragione ripeto che, quando tutto sarà finito (speriamo), sarà interessante osservare l’apertura di procedimenti penali per crimini di guerra a carico di molti responsabili delle stragi di civili. Se finirà, se non prevarranno dottrine morali, se ancora esisterà la Corte Penale Internazionale. Del resto, il diritto internazionale generale sta vivendo in una sorta di interregno.

Lo jus in bello (il diritto bellico – la condotta del combattimento – con il suo corollario di diritto umanitario) è sempre più diritto pubblico generale, come ai tempi della Santa Alleanza. Il diritto bellico è ormai quasi jus cogens (il diritto globale “costituzionale”). Al posto delle fallite misure di prevenzione della guerra derivanti dalla Carta ONU, è oggi la a condotta della guerra, il diritto bellico, a funzionare – paradossalmente, ma nei fatti – da garanzia giuridica. La legittima guerra di difesa però non esiste più, così come la guerra giusta (jus ad bellum): è guerra e basta. Sempre vietata, sempre consentita. Hans Kelsen osservò che nel lessico della Carta ONU la parola “guerra” non era mai menzionata, sostituita sistematicamente da “uso della forza”. Il meccanismo della consuetudine/desuetudine, l’opinione riconosciuta dagli Stati, sta infatti lavorando per realizzare qualcosa di nuovo. Un nuovo jus contra bellum generato dall’equilibrio della forza contrapposta, immerso nel grande disordine della mobilitazione globale che ha fatto a pezzi l’embrione di globalizzazione giuridica. Quello che Kenneth Waltz definì, con un perfetto ossimoro, “ordine anarchico”.

Dipingere nature morte sulle pareti di una nave che affonda

“Il giurista che si occupa di diritto internazionale si sente spesso come quegli intellettuali di cui Bertolt Brecht disse che dipingono nature morte sulle pareti di una nave che affonda” (Antonio Cassese, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo). Ormai siamo così talmente assuefatti alla pubblicistica dello scontro bellico, che raramente si è predisposti a cogliere l’essenza nefasta della guerra, impegnati come siamo a tifare dal calduccio delle nostre case (per ora), per qualcuna delle parti coinvolte nei conflitti “brand” del momento. In questi mesi siamo sommersi da migliaia di articoli e di trasmissioni televisive sulle più seguite guerre sul campo; certo, ce sono altre nel pianeta, in Sudan per esempio, ma pesano molto meno nell’interesse dell’opinione pubblica mondiale.

Oltre a spiegarci, bontà loro, le ragioni dei conflitti, la cortesia degli ospiti o degli estensori di commenti scritti, concentra la propria attenzione descrittiva sulla parte che richiama più l’attenzione di noi ascoltatori: la consueta strage di “civili innocenti”. Ci si limita, quando va bene, a condannare l’uccisione non intenzionale di persone innocenti, i civili. Eppure i civili sono ormai parte integrante della vecchia e nuova dottrina del “bellum iustum” – la “guerra giusta”, inquadrata da numerosi documenti teorici, elaborazione di secoli di studio anche giuridico. Come potrebbe essere altrimenti? Una tragedia immensa, che, utilizzando il titolo di un famoso film, potremmo definire “Il silenzio degli innocenti”.

È giusto avere opinioni, ma bisogna sempre aver chiaro l’insieme. La guerra è uno strumento molto pericoloso. E non si torna indietro. Il genere umano sta scherzando con il fuoco. Orbene, il bollettino annuale degli scienziati atomici dell’università di Chicago conferma che siamo molto vicini all’apocalisse: novanta secondi e mezzo dalla mezzanotte nucleare. Un soffio. Gli scienziati del bollettino hanno aggiunto agli arsenali e alle guerre altre cause che rischiano di portare il genere umano alla catastrofe: i mutamenti climatici, la disinformazione, le pandemie, e ora anche l’intelligenza artificiale. Tutta roba questa che ricorda molto da vicino il concetto di “crimini di sistema” di Luigi Ferrajoli e la dottrina della “coscienza atomica” di Norberto Bobbio.

Intelligente disperazione

Insomma, grande è la confusione sotto il cielo ma come sentenziò Sun Tzu “Combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza: la suprema abilità consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere” (L’arte della guerra, VI-V secolo a.C.). In conclusione, potremmo dire, con Norberto Bobbio, che i tempi che dovremo affrontare sono difficili e incerti. I pessimisti hanno già messo sul conto della vita e della storia la prova estrema. Meglio del resto un atteggiamento di “intelligente disperazione” che l’atteggiamento opposto di ottusa speranza, cioè di una disperazione inerte e rassegnata al peggio. Bisogna fare i conti con i pessimisti – sosteneva Bobbio – perché potrebbero aver ragione.

In foto Norberto Bobbio

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