Vedo nero Macché sovranismi, ci vuole una città aperta alle sfide e al futuro

Fabio Storchi sembra spuntare per indicarci la strada…

L’Assemblea degli Industriali è da tempo un grande appuntamento pubblico nel quale la comunità reggiana e i rappresentanti della società civile si ritrovano per ragionare sul loro futuro. La valorizzazione delle nostre potenzialità è un elemento cruciale non solo per competere, ma anche per affrontare quell’instabilità che rappresenta la cifra distintiva di questi primi decenni del secolo. Nell’ultimo anno si sono riproposte molte incertezze sul futuro del sistema internazionale e delle singole aree regionali. Incertezze riconducibili, prima di tutto, alla maggior instabilità geopolitica su scala globale. Proliferano le minacce non convenzionali da parte di organizzazioni terroristiche attive a livello globale.

L’incertezza si fonda anche sull’evoluzione politica e istituzionale delle maggiori democrazie, che evidenzia una crisi senza precedenti in termini di efficacia e di legittimità. Un dato, quest’ultimo, che interessa le istituzioni internazionali, in particolare l’Unione Europea uscita dal voto del maggio scorso. Il rischio di misure protezionistiche a livello globale e l’attuale rallentamento della crescita del Pil e del commercio su scala mondiale, potrebbero risultare più persistenti del previsto, in particolare se la crescita in Cina si confermasse deludente. Per l’Europa i rischi principali sono una Brexit senza accordo e il protrarsi delle turbolenze temporanee che gravano sul settore manifatturiero a partire dall’automotive. Sullo sfondo, infine, permangono le incertezze sulla globalizzazione e sulla crescita economica che alimentano instabilità e fragilità sociali nei singoli paesi.

L’aumento dell’incertezza politica e misure sfavorevoli alla crescita si possono tradurre in una riduzione degli investimenti privati, come sta già accadendo in Italia. In un quadro come quello richiamato, la situazione nazionale appare sconfortante. La crescita non c’è, il Paese appare isolato, l’Italia è guardata da molti come un rischio sistemico e il secondo debito europeo, il nostro, pare fuori controllo: peggiora così la vita di cittadini e imprese.  Secondo la Fondazione Hume di Luca Ricolfi il venir meno della fiducia internazionale nel nostro paese, ha determinato, nei primi sei mesi di vita del governo, una perdita di ricchezza finanziaria che ammonta a 244 miliardi così suddivisa: 28,8 miliardi in obbligazioni, 79,7 miliardi in azioni quotate, 61,4 miliardi in Bot e Btp, infine 74,1 miliardi denunciati da Bankitalia e dagli investitori esteri. Accanto a tutto ciò l’esecutivo ha finanziato le riforme Quota 100 e Reddito di cittadinanza, caricando sul 2020 un aumento di due punti dell’Iva, per un totale di entrate attese pari a 23 miliardi.

Per evitare l’aumento dell’Iva il Governo adesso deve trovare 23 miliardi che, sommati agli altri impegni, già in bilancio per l’anno prossimo, portano il totale a una maximanovra da finanziare di 35-40 miliardi di euro. Tutto ciò tacendo della Flat Tax che, se realizzata come promesso agli elettori, comporterebbe per le casse dello stato un ulteriore aggravio di decine di miliardi. Siamo in un vicolo cieco. Ma non basta, dopo le elezioni europee e con una crescita a zero, la questione del debito italiano è nuovamente esplosa. Tanto i mercati quanto la Commissione Europea potrebbero sanzionare l’operato del Governo che non ha sostenuto efficacemente la crescita e ha peggiorato nuovamente il rapporto debito/Pil. Mai come questi giorni il Governo del Cambiamento è chiamato a un’inversione di marcia per “cambiare” una situazione difficile.

Deve, prima di tutto, comprendere che 450 miliardi di export delle nostre imprese, la seconda posizione nell’industria europea e la settima al mondo, non sono un dato scontato, ma il frutto di un impegno solitario e incompreso di tanti imprenditori e di milioni di loro collaboratori. La verità è che il tempo passa e le élite vecchie e nuove del nostro Paese non ne sono consapevoli: sono convinte che l’industria continuerà in ogni caso a garantire lavoro, gettito fiscale e coesione sociale. La titanica lotta planetaria per lo sviluppo dell’auto elettrica a guida autonoma ci dice il contrario. La rivoluzione digitale ci dice il contrario. La globalizzazione e le contraddizioni conseguenti ci dicono il contrario. Nessun sovranismo e nessuna nazionalizzazione possono garantire il futuro all’industria italiana.

Siamo stati molto bravi nel riuscire a costruire, dal basso, un capitalismo fatto di tanti “campioni” e di formidabili filiere, ma attenzione, non si deve tirare troppo la corda. Oggi la nostra manifattura per avere un futuro deve poter contare su un Paese e su sistemi territoriali che come “destino” scelgono l’industria, la conoscenza, la ricerca, la sostenibilità e la coesione sociale. Le imprese e il lavoro devono sentirsi sostenuti da una politica industriale, da un sistema educativo e formativo, da una politica fiscale, da un sistema giudiziario e da relazioni industriali a misura della quarta rivoluzione industriale. È questo ciò che occorre. Quello che per quanto possibile dobbiamo impegnarci a realizzare sul piano locale.

Venendo all’economia reggiana è evidente il suo allineamento con le dinamiche italiane. A Reggio Emilia la crescita attesa è analoga a quella del Pil nazionale, le cui ultime stime per l’anno in corso si collocano intorno a un irrilevante +0,1%.  L’attività manifatturiera reggiana, che ha già registrato a inizio anno una frenata della produzione e del fatturato, affronta una flessione degli ordinativi, in particolare quelli interni, mentre mantiene in terreno positivo i risultati attesi dall’export. Prometeia prevede per il 2020 una crescita che potrebbe raggiungere +0,9% del Pil. Nell’anno in corso l’occupazione dovrebbe subire un leggero rallentamento rimanendo, tuttavia, in territorio positivo con un incremento degli occupati pari allo 0,3%. Quanto al tasso di disoccupazione, dovrebbe attestarsi intorno al 4,2%, confermando così Reggio Emilia al secondo posto dopo Bolzano. I dati della congiuntura internazionale e nazionale sono preoccupanti e, tuttavia, non ci impediscono di ritrovarci qui per ragionare sul futuro che possiamo e dobbiamo costruire, insieme.

In un Paese come il nostro, che sembra aver smarrito la strada del risanamento, del rinnovamento e del rilancio, è indispensabile che le realtà territoriali si attivino autonomamente per migliorare tutto quanto è nella loro concreta disponibilità. Ciò significa, prima di tutto, avviare collaborazioni tra gli attori economici, sociali e istituzionali. Mi riferisco a quel Fare Insieme che gli Industriali hanno scelto come motto per qualificare il rinnovamento dei servizi associativi e l’attività di rappresentanza.

Nella nostra vision c’è una chiara idea di città e di territorio nei quali vogliamo vivere e lavorare. Una realtà moderna, inclusiva e solidale, capace di mettere in relazione persone e luoghi, di ridurre i divari e di rafforzare la coesione sociale.

Nell’ultimo anno abbiamo lavorato intensamente alla ridefinizione delle linee d’azione associative per renderle coerenti con il nuovo paradigma della rivoluzione digitale. Da questo impegno, che ha coinvolto decine e decine tra imprenditori, funzionari e specialisti, è scaturito il Libro Bianco, approvato pochi minuti fa, dal quale prenderà forma nei prossimi mesi il Piano Operativo triennale di Unindustria Reggio Emilia. Ci siamo impegnati anche per mettere a fuoco le possibili linee dello sviluppo locale; linee che da oggi vogliamo condividere con la società reggiana.

Per l’insieme di queste ragioni la città di Reggio Emilia e l’area Mediopadana si avviano a diventare gli interlocutori più immediati e il punto di riferimento per la competitività delle imprese e per le loro associazioni. La città e l’area vasta circostante sono indispensabili alle multinazionali tascabili che devono trovare ogni giorno validi motivi per mantenere in loco i loro quartieri generali e le loro produzioni più pregiate. Sono indispensabili alle altre imprese industriali per continuare a esercitare quel ruolo di collante capace di aggregare distretti che si evolvono su scala globale. Servono alle startup che alimentano la vitalità del tessuto industriale con le loro innovazioni. Ne hanno bisogno le Categorie economiche per esercitare il loro protagonismo e la loro vitalità all’interno dell’ecosistema urbano. Sono necessarie a tutti perché la rivoluzione digitale incalza.

Internet delle cose è il nuovo paradigma che impatta su tutti i settori e che impone tanto la ri-definizione dei modelli di business di ogni impresa, quanto la riorganizzazione delle stesse città. Dunque, la cultura digitale e la sua diffusione si avviano a diventare le caratteristiche distintive dei luoghi capaci di competere nel nuovo mondo della quarta rivoluzione industriale. Territorialità e digitalizzazione sono le parole chiave del percorso evolutivo da noi indicato in continuità con ciò che la nostra comunità ha sin qui realizzato. In un Paese per molti versi in crisi d’identità, Reggio Emilia è da anni impegnata a riconsiderare il proprio passato per disegnare il suo futuro.

All’interno dell’Area Nord la trasformazione delle ex Officine Reggiane deve diventare il vero grande progetto condiviso da tutti gli attori locali. Siamo di fronte a uno tra i maggiori interventi di rigenerazione urbana del Paese, fondato sull’intreccio tra funzioni diverse ma coerenti tra loro. Mi riferisco al Tecnopolo, ovvero i nuovi insediamenti di imprese, di funzioni di Ricerca & Sviluppo e di assistenza alle startup, anche attraverso la presenza di un incubatore-acceleratore di rilievo nazionale. Penso, ancora, a un Campus universitario dedicato al digitale. Considero, infine, gli insediamenti residenziali per studenti, docenti e tecnici con le loro famiglie. Obiettivi, gli ultimi due, la cui ragion d’essere è la nuova identità di città universitaria che Reggio Emilia si è costruita negli ultimi decenni.

Il successo degli oltre 9.000 studenti presenti nelle sedi reggiane impone ora agli attori locali di elaborare proposte per nuovi corsi, coerenti con le esigenze e le vocazioni del sistema economico e sociale. È indispensabile una riflessione su quanto sin qui realizzato come premessa per una forte e condivisa progettazione del futuro. Sono maturate le condizioni per aggiornare e ridefinire il “patto” che nel 1999 portò alla creazione di Unimore, il primo Ateneo italiano a “rete di sedi”. Tutto ciò richiede, tra le altre cose, una nuova pianificazione logistica delle sedi che consideri tanto l’esistente – compreso il già avviato recupero dell’ex Seminario Vescovile – quanto le future esigenze espresse dai tre Dipartimenti attivi nel Capoluogo. Il nuovo corso di laurea in Marketing Digitale – il cui avvio è previsto per l’autunno 2019 – indica con chiarezza il digitale come una delle auspicabili aree di sviluppo che abbiamo già attivamente contribuito a promuovere e realizzare.

Rappresenta, infatti, la risposta tempestiva a una domanda emergente del sistema produttivo, ma anche il primo passo verso la costituzione di quel Campus universitario dedicato ai saperi digitali al quale ho fatto riferimento poco fa. Una realizzazione che concorrerebbe a qualificare il sistema industriale locale, moltiplicandone l’attrattività nei confronti delle imprese di un territorio più ampio, collocato nella dimensione Mediopadana e lungo l’asse del Brennero che guarda alla Germania. Le ex Officine Reggiane possono diventare anche il luogo d’insediamento delle imprese culturali ad alto contenuto di creatività di cui Palomar, azienda leader nella produzione di film e fiction televisive, costituisce un esempio emblematico. Il “sogno” da realizzare è la creazione di un nuovo “quartiere”, pulsante, culturalmente vivace, digitale e popolato da giovani, che viva in osmosi con l’intera città contaminandola positivamente.

Ciò significa perseguire l’affermazione delle imprese culturali e creative, che in molte realtà rappresentano il nuovo paradigma capace di trasformare i centri urbani in rinnovati “spazi di vita e consumo” animati dall’intraprendenza delle categorie economiche. L’insieme di quanto sin qui richiamato rappresenta il presupposto indispensabile per rinnovare il nostro tessuto economico: dall’agricoltura alla manifattura, dal terziario dei servizi e del commercio ai settori emergenti, come la creatività e l’entertainment.

Reggio Emilia deve guardare con attenzione all’area Mediopadana per dare risposta alla frammentazione istituzionale che rende le politiche pubbliche meno efficaci e ritarda gli investimenti nelle infrastrutture materiali e immateriali.

In una realtà moderna e complessa come la nostra, né le istituzioni, né gli enti, né le categorie economiche, né il terzo settore sono autosufficienti. Ciascuno di questi può fare molto, ma da solo non ce la può fare. C’è bisogno della collaborazione di tutti. Servono soluzioni valide per le imprese, per il lavoro, per l’istruzione, per la ricerca e per il welfare. Serve l’innovazione tecnologica, economica, politica e sociale. Servono fiducia e speranza. Nella consapevolezza di ciò voglio aprire i nostri lavori ricordando le parole di un grande italiano, l’imprenditore umanista, Adriano Olivetti. Questo il suo pensiero sul quale siamo tutti chiamati a riflettere. “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualche cosa di infinitamente più grande”. Di fronte a noi, a tutti noi, c’è una sola opzione sfidante e allo stesso tempo appassionante: decidere di cominciare, il resto poi … verrà.

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