Vanniloqui Rivoluzioni web

«Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione. Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c’è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: “Oh, oh, è venuto il momento di cambiare tutto” […] Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: “Qui ci vuole un cambiamento!” e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzione… E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente… tutto torna come prima!».

I tanti, nostalgici cinefili di un mondo in cui il cinema era ancora il cinema l’avranno riconosciuta: è una citazione da “Giù la testa”, di Sergio Leone, in cui il bandito Juan Miranda – Rod Steiger dice cosa pensa dell’idea, appunto, di rivoluzione, che in sostanza si tratta di una roba che danneggia i poveracci a favore di pochi luminari. Sorvolando sulla delusione di Eli Wallach, che avrebbe voluto interpretare lui il ruolo (ci uniamo a lui in questo dolore), studiando la storia delle rivoluzioni non è che avesse poi tutto questo torto: queste forme di mutamento nascono dalla testa dei pochi, che sfruttano poi qualche moltitudine in qualità di forza lavoro (o di carne da cannone) per darvi peso, e una volta posatesi le ceneri si scopre che i privilegi massimi sono stati destinati solo a pochi e che una qualche forma di restaurazione è già partita: ad opera dei vecchi poteri, che ripristinano quanto danneggiato dalla sommossa, o ad opera dei nuovi, che dei vecchi poteri ora vogliono fare uso. Certo, qualche lascito, a volte importatissimo, c’è sempre: non è che puoi stuzzicare la bestia dai cento stomaci, il popolo, senza poi darle nulla in pasto. Pensiamo alle rivoluzioni francese, russa, americana, anche alla suddetta rivoluzione messicana: di certo c’è che iniziano dalla rabbia, procedono nella confusione e nel sangue, e alle spalle si lasciano un bel macello da ripulire. Quanto all’instaurazione dei diritti, in compenso, il discorso si fa, diciamo, più sfumato: pensiamo alle rivoluzioni iraniana, cubana ed haitiana, e benché non se ne parli praticamente mai in tal senso buttiamo sul piatto anche quella fascista, con tutto quello che ne seguì. Ecco; il giudizio ultimo su cosa sia e su cosa raggiunga una rivoluzione, in sostanza, lo opera, con grande affanno, solo la Storia, e oltretutto meglio se da una grande (o grandissima) distanza, perché i suoi effetti perdurano molto a lungo. Oggi, un momento storico in cui questa parola viene usata straordinariamente a sproposito per indicare semplicemente la volontà di un cambio della guardia, restando però saldamente in possesso delle stesse garitte, le regole di base testé delineate sono rimaste fondamentalmente le stesse, ma con qualche distinguo importante da operare. Intanto, i diritti da raggiungere: si fanno via via sempre più sfumati, mano a mano che l’idea di rivoluzione tocca non già popolazioni che sono private di necessità civili e sociali fondamentali, ma al contrario di privilegi o di desiderata visti come spettanti di diritto; quisquilie, la mancanza delle quali viene contrabbandata come sofferta al pari della mancanza di pane solo perché il pane, quello e anche grissini, crackers e sfogliatine bio dietetiche veg, ce n’è in sovrabbondanza.

Ragion per cui si può benissimo, e senza soluzione di continuità, spavaldamente agitare la bandiera dei cassieri dei supermercati costretti a lavorare la domenica, per poi dopo tre o quattro giorni, e senza rilevare la cesura, metterli in croce ossessivamente rompendo loro i maroni in quanto servili servi del potere felici di battere il prezzo del sacchetto biodegradabile sullo scontrino, due centesimi che non in quanto tale, ma in quanto diritto diniegato, questione di principio rappresentano la fiammella che accende il falò della battaglia di civiltà atta a difendere il sacrosanto diritto di tutti noi, poveri oppressi, a spendere i nostri otto o dieci Euro l’anno come meglio crediamo; magari in Gratta & Vinci, s’intende, ma nostri, poffarbacco! Che del fatto che tra la zucchina confezionata e quella sfusa ci siano a parità di peso tipo 1 Euro e mezzo non ci è mai fregato niente e siamo stati ben felici di portare a casa, per poi smaltire in tuta acetata col favore delle tenebre nel cassonetto della plastica l’inutilissima confezioncina in polistirolo, però oh, ce lo dice la Rete, quindi accodiamoci alla rivolta. Perché ormai, inutile negarlo: le intellighenzie che spingono alla mutazione sociale repentina e accorata, dal momento che i circoli politici, non essendo più in odor di Carboneria e fornendo solo tartine molto deludenti sul piano qualiquantitativo, si sono spostate in massa sul Web. Sul quale, sempre a differenza dei circoli politici, oggi a parlare di necessità di rivoluzione si rimorchia ancora: perché fare i galli parlando di Che Guevara e di sandinisti davanti a due caffè in bicchierini di plastica su di un tavolo di formica scrostata quando puoi farlo benissimo comodamente da casa tua, che oltretutto hai il vantaggio di allargare il ventaglio dei tuoi polli (che quelli vecchi, loro, ormai ti hanno sgamato da un pezzo)? La logica geometrica della Rivoluzione odierna è, manco a dirlo, infallibile: legge (ad mentula canis) emessa dal rivale politico, pagamento in soldi o in visibilità (che è come soldi veri, giusto?) a una decina di blogger appositamente foraggiati per creare una massa critica di click, finalmente qualche giornaletto riporta la notiziona in calce alla pubblicità del gabinetto odontoiatrico, da lì rimbalza su Twitter, su Facebook e finalmente sui quotidiani maggiori: ed è subito sera. Di solito il giro da noi prevede l’intervento del sempre affamato Huffington Post (nato appunto con questa sua Mission di raccogliere a strascico tutte le peggio minchiate che solo sembrino appena verosimili) in prima istanza; quando i primi diffusori sono al contrario Libero, il Fatto Quotidiano e il Giornale dovrebbe risultare evidente anche ai più lenti di comprendonio che si tratta non già di una battaglia per i diritti civili, quanto di una delle tante propaggini di quella che è ormai una infinita, asfissiante, atroce continua campagna elettorale che si trascina ormai da cinque anni a questa parte. 2012: data a partire dalla quale, forte delle esperienze in tal senso già condotte dai Piccoli Amici di Lebowski, o qualsiasi altro nome fosse stato dato alla scuderia di giovani attivisti cresciuti in casa delle Libertà dal previdentissimo e scafato Gianfranco Fini, M5S parte e comincia,presto seguito da tutti gli altri (con risultati alterni e spesso grotteschi) a sfruttare la potenza dei social in chiave di propaganda politica.

Cadrà la terribile dittatura in salsa rossocrociata del potente PD per una questione di sacchetti bio? Ne dubitiamo; ormai solo i commessi alla cassa stanno facendo le spese di questa follia, che ha portato un buon numero di disturbati a cominciare ad etichettare una per una noci, arance, arachidi, per poi non notare sullo scontrino che su ogni referenza c’è riportata la dicitura “tara” con l’apposito prezzo (cosicché in luogo di un sacchetto per venti arachidi paghi venti volte il sacchetto, ma puoi fotografarle e mandarle online e ti senti Pancho Villa). Anche perché chi usa oggi i social in realtà non li ha mica capiti tanto bene, se ne serve come megafono senza pensare che, poi, non di megafono si tratta, ma di qualcosa di completamente differente. Non è come sfruttare la potenza di Internet per aggirare il blocco delle altre comunicazioni come è avvenuto nella (non più così) recente Primavera Araba (ve la ricordate? Sapete cosa ha sortito?) o per aggirare la censura delle altre comunicazioni (ma si censurano anche i social, in gran parte dell’Oriente vicino e lontano: sapete dove? E perché?); questa, poi, era la ragione alla base della nascita del Web tutto, quella ARPANET del 1969 che sembrava dover rimanere limitata a scopi bellici e parabellici. No; oggi tutto ruota intorno al concetto di stazionamento sul mezzo e di replica virale dei contenuti. Ovvero: quanto resti collegato, e quanti farai restare collegati, e quanto a lungo. Questo perché l’unica cosa che paga i social è il soldo (vero) degli inserzionisti, che debbono essere persuasi (ancora ci cascano, eh!) che la tua esposizione alle loro pubblicità equivale ad un ritorno economico in grado di garantire loro un utile. Quindi, qualunque comunicazione tu voglia fare, questa non potrà mai superare i limiti rigidi imposti da alcuni fattori: 1) la struttura del mezzo su cui ti esprimi, 2) le finalità del mezzo stesso, 3) la natura delle persone, 4) l’impermanenza dell’informazione, la sua assoluta, estrema volatilità in un mondo fatto ormai di cose impermanenti, rapidissime, volatili. Il che genera una situazione cui gli utenti corrono ai ripari determinando quello che è noto come fenomeno delle “echo chambers”: camere dell’Eco, una struttura apparentemente infinita e dalle infinite potenzialità nella quale, in realtà, proprio come nel reale (e ancora di più) ciascuno si nutre solo delle opinioni e della presenza di chi la pensa, la vede, la intende come lui, in modo da rafforzare e sostenere la propria opinione, anziché correre il rischio di doverla cambiare.

Per cui: no, non abbiate paura della Rivoluzione dei Sacchetti. Essa non vedrà la luce; certamente, non su Facebook, un mezzo sul quale le stesse persone riescono l’altro ieri a propagandare le 50 sfumature di grigio, il giorno seguente a scrivere “l’uomo che ti sbatte al muro patrimonio dell’umanità” pensando magari ad Alberto Angela, poi dopo un breve iato a massacrare Weinstein o, in alternativa, Asia Argento (o tutt’e due), per subito dopo massacrare la Deneuve che scrive che secondo lei si sta un attimo uscendo di testa e augurarle, in nome della difesa della donna dagli stupri, di venire stuprata a ripetizione. No; più facilmente assisteremo, ora che i margini delle battaglie di civiltà si sono così tanto assottigliati, ora che il pane ce l’abbiamo tutti e pure ogni sorta di brioches, senza farina 00, senza burro, senza zucchero, senza brioches che si dimagrisce, alla solita tornata di promesse elettorali sempre più dissennate per poi assistere ad un salvataggio in corner delle cose che si erano promesse di rottamare (tipo l’Euro, no?) senza conseguenza concreta alcuna. Fatto salvo ovviamente l’esaurimento di qualche cassiera che, anche la domenica, si vedrà rinfacciare, lei, servile serva del potere, il nuovo costo antisociale ed antidemocratico del sacchetto bio.

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