Vaccini no o sì: dove non ci sono, riappaiono malattie sconfitte

Firenze – Vaccino si, vaccino no. Mentre le polemiche infuriano, ci siamo rivolti a Corrado Catalani, ex-primario di malattie infettive all’ospedale di Pistoia  in pensione dal 1 marzo scorso, uno dei medici in prima linea per quanto riguarda la prevenzione e, dunque, i vaccini. “Domande che non hanno senso per chi si occupa a livello specialistico di malattie infettive e di sanità pubblica perché hanno una sola documentata risposta: il rapporto costo/efficacia è tutto a favore della seconda”, è l’incipit con cui ci accoglie Catalani. Eppure, nella popolazione generale, e a quanto risulta dalla cronaca recente, non solo, si stanno diffondendo opinioni contrarie all’uso delle vaccinazioni, che, secondo il professore,  “non hanno alcun fondamento scentifico”.

Quale potrebbe essere il motivo di questa “corrente”?  “Premessa ineludibile – dice Catalani – è che nessuna procedura medica, nemmeno quella apparentemente più semplice, è totalmente priva di rischi. Certamente i vaccini non fanno eccezione. Inoltre, parlando di vaccini ci si riferisce a sostanze diverse finalizzate a produrre una difesa immunitaria (immunizzazione) nel singolo e nella popolazione verso agenti molto diversi fra di loro per struttura e per meccanismo d’azione come virus (influenza, parotite epidemica, varicella, morbillo, epatite A e B ecc.) e batteri (meningococco, pneumococco, micobatterio della tubercolosi ecc.). Agenti infettanti diversi causa di malattie molto diverse che richiedono anche strategie vaccinali diverse: alcune di massa in fasce di età definite, altre mirate a fasce a rischio particolari, altre utili per affrontare vere e proprie situazioni epidemiche ed altre ancora di uso razionale solo in alcune aree geografiche”.

Dunque, suggerisce Catalani, è perlomeno scorretto fare di tutta l’erba un fascio. “Scorretto, pertanto, applicare qualunque generalizzazione sfavorevole di principio in senso assoluto soprattutto a fronte della prova provata che l’impiego su larga scala dei vaccini ha permesso nel tempo di controllare la morbilità e la mortalità per molte malattie. E forse proprio questo è il primo motivo che ha giustificato il diffondersi di questa corrente di opinione pubblica improntata allo scetticismo o all’avversione. Tetano, difterite, poliomielite, morbillo sembrano appartenere ad uno scenario passato destinato a non riaffacciarsi più. E, quindi, perché accollarsi rischi che vengono percepiti come di maggiore entità rispetto al beneficio che si ricaverebbe da una puntuale pratica vaccinale?”-

La storia tuttavia dimostra che le cose non stanno così . Tant’è vero, continua Catalani, “che in tutte le realtà in cui la copertura vaccinale è stata ristretta o interrotta queste patologie si sono riaffacciate prepotentemente con tutto il loro carico di complicanze anche letali. L’esempio più significativo è rappresentato dall’epidemia di difterite che ha colpito i paesi dell’ex Unione Sovietica a partire dal 1990. Un’altra comune osservazione che ha alimentato dubbi ed incertezze fra la gente riguarda la vaccinazione antinfluenzale. E’ facile ascoltare persone che riferiscono di aver fatto ricorso alla vaccinazione appena disponibile per il relativo anno corrente e di essersi ammalate comunque di “influenza” nel corso dell’inverno inoltrato oppure appena poche settimane dopo. Anche a chi vive queste esperienze e ne trae conclusioni di un certo tipo è possibile offrire risposte scientificamente documentate e da molto tempo conosciute. Il virus influenzale – e non è il solo – può mutare molto rapidamente nel corso della singola stagione fino ad acquisire una struttura che non può essere “protetta” dal vaccino che di regola viene prodotto sulla base degli isolamenti effettuati nelle fasi più precoci dell’ondata epidemica. In più nel periodo autunnale ed invernale circolano una grandissima quantità di agenti infettanti diversi dal virus dell’influenza ma che producono quadri febbrili con sintomi in tutto o in larga parte corrispondenti a quelli propri dell’influenza”.

Se questo è il punto, tuttavia ci sono anche alte informazioni che aiutano a comprendere il problema, suggerisce Catalani. “Un tema importante è quello della variabilità individuale della risposta. Il vaccino, come e di più di molti farmaci, non agisce direttamente contro il germe ma attivando la risposta dell’organismo con un meccanismo abbastanza complesso. Questo prevede anche l’archiviazione dell’informazione relativa alla capacità di difesa acquisita in modo che possa essere attivata nel caso di infezione qualora si manifesti anche tempo dopo. Il tutto non è per tutti uguale e non è sempre costante nel tempo anche per effetto di una diversa attitudine del soggetto per l’avanzare dell’età o per l’affiorare di altre malattie che possono avere implicazioni dirette o meno sul sistema immunitario. L’altro tema importante è quello del numero dei soggetti che è necessario vaccinare per ottenere l’efficacia voluta. Ordinariamente la necessità di vaccinare un numero elevato di persone per una specifica malattia dipende dal fatto che l’effetto che così si ottiene è quello di ridurre la circolazione del relativo microrganismo riducendo contestualmente il numero di soggetti suscettibili nella popolazione. Così si riesce ad indurre una protezione indiretta anche per chi non è stato vaccinato. Questo effetto è conosciuto con il nome di immunità di gregge”.

Concludiamo con alcune considerazioni sui casi di meningite meningococcica in Toscana. “Premesso che è fuori dubbio che la Toscana viva una situazione di iperendemia come documentato dalle indagini di prevalenza sui portatori e che, questo lasci prevedere una circolazione protratta di questo tipo particolarmente aggressivo di meningococco e che, come ha dichiarato recentemente Rappuoli a “Repubblica”, in questi casi è necessario prevedere una somministrazione di “richiamo” dopo 5 anni dalla prima, non è forse il caso di pensare a modificare le strategie vaccinali adottate indirizzandole verso sottopopolazioni target più mirate e con approccio attivo e non a richiesta analogamente a quanto fatto in altri Paesi?”.

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