di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese
Bologna – L’università italiana deve migliorare. E ha bisogno di maggiori finanziamenti. Ma nuove risorse favoriscono il miglioramento soltanto se concentrate dove possono più facilmente dare buoni frutti. Inoltre, non possono venire dal bilancio pubblico; non solo perché i conti dello Stato non lo permettono, ma anche perché finanziare ancor più gli atenei attraverso la fiscalità generale caricherebbe ulteriormente sulle famiglie meno abbienti e senza figli all’università il costo di studi universitari redditizi intrapresi prevalentemente dai figli delle famiglie benestanti.
C’è però un modo per reperire maggiori risorse e indirizzarle dove meglio possono essere usate. Non un nuovo terremoto riformatore, ma la creazione di condizioni che consentano lo sviluppo graduale e sperimentale di corsi universitari operanti in modo diverso e con risorse autonomamente raccolte. Nulla cambierebbe per chi preferisse continuare con il sistema attuale. Se i nuovi corsi saranno effettivamente migliori la sperimentazione contagerà positivamente il resto del sistema. In caso contrario, si esaurirà senza aver fatto molti danni.
1) Tre premesse della nostra proposta
Un investimento rischioso richiede un finanziamento e un’assicurazione
Tutti gli investimenti comportano un costo immediato e dei benefici differiti e protratti nel tempo; è opportuno che siano fatti quando il saldo tra costi immediati e benefici futuri (opportunamente calcolato) è positivo, ossia quando le risorse che verranno prodotte in futuro sono più che sufficienti per compensare il costo che oggi deve essere sopportato, e resta così un sovrappiù sufficiente a giustificare l’investimento. Se tuttavia può investire solo chi ha già oggi le risorse per sopportarne il costo, molti investimenti redditizi non sarebbero fatti. Ne sarebbe più svantaggiato chi è oggi povero di risorse ma ricco di potenzialità e di idee che renderebbero nel futuro se l’investimento fosse possibile: in una parola, i giovani.
La finanza, che pure di questi tempi non gode di una buona reputazione, è la risposta a questo problema: chi oggi ha le risorse le rende disponibili a chi oggi ha le idee, le opportunità di investimento, e viene ricompensato in futuro quando quelle idee, quegli investimenti, daranno i loro frutti. La realtà è un po’ più complicata, però, per la presenza dell’incertezza. Molti investimenti rappresentano una scommessa: non è certo che siano sempre redditizi (anche se mediamente lo sono). Chi potrebbe fare un investimento redditizio, ma dai benefici incerti, sarebbe allora riluttante a chiedere un finanziamento che, anche se l’investimento andasse male, dovrebbe comunque essere ripagato. Di nuovo, la finanza offre una soluzione, nella forma dell’assicurazione: se l’onere di rimborsare il finanziamento fosse eliminato o ridotto in quelle circostanze in cui l’investimento rende poco, tornerebbe a essere attraente farlo, pur sapendo che il suo rendimento è incerto.
Queste considerazioni, all’apparenza astratte o generiche, si applicano perfettamente alla scelta di intraprendere un corso di istruzione universitaria. È un investimento con un elevato costo iniziale (una parte importante del quale è rappresentata dal mancato guadagno durante gli anni di studio) ma che, dati alla mano, è in media ben redditizio (anche se in Italia lo è in misura inferiore rispetto ad altri Paesi simili) ma rischioso. Un primo pilastro della nostra proposta è allora la creazione di un sistema di finanziamenti con una robusta componente assicurativa.
Serve un sussidio statale?
Se un investimento è redditizio, perché lo Stato dovrebbe sussidiarlo? Una volta risolto il problema del finanziamento, chi ne trae i benefici dovrebbe avere tutti gli incentivi a effettuarlo, senza bisogno che i suoi costi siano in parte pagati dalla collettività. Supponiamo però che una parte di quei benefici sia goduta anche da chi non ha fatto l’investimento; in tal caso sembra ragionevole che i costi siano ripartiti su una platea più ampia, poiché se così non fosse il singolo, che non percepisce o sottovaluta i benefici “esterni” che genera, avrebbe un ridotto incentivo a realizzare l’investimento, e in media non investirebbe abbastanza.
Qual è la situazione nel caso dell’istruzione superiore? Rinviando al libro per una discussione più estesa, ci limitiamo qui ad affermare che le analisi empiriche disponibili trovano scarsa evidenza di rilevanti “effetti esterni” per l’istruzione superiore (il caso della scuola primaria e secondaria è diverso). Ne traiamo la conclusione che ci sia spazio per aumentare il contributo diretto di chi beneficerà dei frutti dell’istruzione universitaria, senza che questo necessariamente porti l’incentivo ad acquisire quell’istruzione al di sotto del livello che la società considera ottimale.
Un secondo pilastro della nostra proposta quindi è, coerentemente con queste considerazioni, un innalzamento delle tasse universitarie (per quegli atenei e per quei corsi di laurea che volessero partecipare alla sperimentazione).
Serve la concorrenza?
Quasi tutto il finanziamento pubblico dedicato all’università è allocato in base alla “spesa storica”: date le risorse disponibili in un certo periodo, esse vengono ripartite tra i vari atenei in funzione di quanto essi hanno speso nel passato. È chiaro che questo meccanismo è un incentivo a spendere tanto, non a spendere bene; al contrario, chi risparmia è penalizzato! La recente, ennesima riforma dell’università, tra tante cose sbagliate, ha affermato un principio importante e giusto, che potrebbe invertire questa tendenza: commisurare una parte dei finanziamenti alla qualità dell’università, misurata sul piano della ricerca che essa produce e su quello della sua offerta formativa. Purtroppo, la rilevanza quantitativa di questo principio potrebbe rimanere trascurabile e la macchina amministrativa messa in piedi per misurare la qualità è pesante, lenta e poco flessibile. È ancora presto per formulare un giudizio informato su quali modifiche tutto questo produrrà; crediamo però che sarebbe saggio e utile rinforzare questa tendenza con un’iniezione di concorrenza, che dia voce agli utenti finali dell’università: gli studenti e le loro famiglie. E questo è il terzo e fondamentale pilastro della nostra proposta.
2) La chiave di volta: dare una reale facoltà di scelta agli studenti
La nostra proposta si fonda sull’idea che i principali utenti dell’università, gli studenti, debbano essere coloro che ne giudicano la qualità e, scegliendo dove andare, premiano gli atenei migliori e penalizzano i peggiori. Una maggiore concorrenza e una reale facoltà di scelta consapevole ed esigente degli studenti possono migliorare la qualità del sistema universitario. Perché questo avvenga sono necessarie tre condizioni concatenate:
- gli studenti meritevoli devono avere i mezzi economici per scegliere dove andare, per non essere costretti a restare nella città dei genitori;
- un ateneo che viene scelto da molti studenti di valore deve trarne un beneficio (e simmetricamente un ateneo in cui nessuno vuole andare deve esserne penalizzato);
- gli atenei devono avere l’autonomia e le risorse necessarie per costruire un’offerta formativa in grado di attrarre gli studenti.
Per garantire la prima condizione proponiamo che gli studenti giudicati meritevoli sulla base dei risultati ottenuti nella scuola superiore ricevano un finanziamento (lo potremmo chiamare una “borsa di studio restituibile”), che ripagheranno quando troveranno un lavoro e in proporzione al reddito che guadagneranno: pagheranno cioè poco (o nulla) quando il loro reddito sarà basso, e pagheranno di più quando se lo potranno permettere.
Per garantire la seconda, proponiamo che le università possano raccogliere, dagli studenti che le scelgono, maggiori risorse attraverso maggiori tasse universitarie, differenziate per reddito della famiglia d’origine; quindi non uguali per tutti, ma in media più elevate di adesso (e non in sostituzione delle risorse che oggi le università ricevono dallo Stato).
Per garantire la terza, proponiamo che sia concessa ampia autonomia agli atenei, non solo nel disegno dell’offerta formativa, ma anche nelle scelte riguardanti assunzioni, retribuzioni e promozioni di docenti e ricercatori, lasciando che sia poi la valutazione degli studenti a “metterli in riga”.
3) La nostra proposta, in concreto
Le borse restituibili e i loro destinatari
Prevediamo di offrire ai giovani più promettenti (per esempio, i circa 50.000 studenti che ogni anno superano la Maturità con un voto superiore a 90; ma altri criteri sono possibili) un prestito di circa 80.000 euro (15.000 euro all’anno per 5 anni, con un interesse del 2% reale) per coprire i costi di sostentamento e le tasse universitarie di una laurea magistrale, da restituire (sempre tenendo conto di un interesse del 2% reale) mediante un prelievo del 10% sulla parte del loro reddito futuro che superi i 15.000 euro lordi all’anno. Fino a quando il reddito rimanesse inferiore a 15.000 euro il rimborso sarebbe dunque nullo; sarebbe di circa 8 euro al mese per un reddito di 16.000 euro, di circa 40 euro per uno di 20.000 euro, di poco più di 200 euro per uno di 40.000. Il rimborso sarebbe dunque basso o nullo quando fosse più oneroso fargli fronte, cioè nei periodi di basso reddito; salirebbe invece quando un reddito più elevato consentisse di affrontarlo senza troppi sacrifici. Si tratterebbe dunque di un finanziamento con una sorta di implicita clausola assicurativa: il debitore deve rimborsare di più quando è più facile farlo. L’assenza di una rata fissa, che rischierebbe di diventare insostenibile nei periodi di basso reddito, sarebbe compensata dalla lunghezza variabile del periodo di rimborso: se il rimborso è basso dovrà durare più a lungo, mentre con rimborsi più elevati si finirà prima.
È possibile che il rimborso resti così basso e per un periodo così lungo che, anche alla fine della carriera lavorativa, una parte del prestito iniziale resti da rimborsare. Ci sarà dunque una quota dei prestiti che non verrà restituita. Poiché però chi presta vuole tornare in possesso dei soldi che ha prestato (solo in questo caso si potrebbe pretendere che il prestito venga fatto a un tasso di interesse basso, come quello da noi considerato), dobbiamo prevedere un fondo di garanzia da cui trarre le risorse per compensare la parte che non verrebbe rimborsata. Questioni importanti sono la dimensione del fondo di garanzia, che dipende dalla quota attesa di mancati rimborsi, e chi lo alimenta.
Finanziamento e garanzia delle borse restituibili
Al di là degli specifici meccanismi istituzionali, i prestiti sono finanziati dalla generazione dei padri che investe in quella dei figli e dei nipoti, e sono garantiti dagli atenei. In entrambi i casi si tratta di uno scambio dal potente valore simbolico, ma che deve avere, crediamo, una sua razionalità economica.
Veicoli di questo scambio sono la Fondazione per il merito (FM), una “scatola” per ora vuota recentemente creata dal Ministero dell’Economia e dal MIUR con lo scopo di finanziare gli studi universitari degli studenti più meritevoli, e la Cassa depositi e prestiti (CDP), che raccoglie e gestisce il risparmio postale. Questo risparmio viene convogliato dalla CDP alla FM, che eroga i prestiti e che detiene il fondo di garanzia, a copertura dei mancati rimborsi. Quindi il finanziamento che la CDP può razionalmente erogare sarà un multiplo, pari all’inverso della quota di prestito che in media non sarebbe restituita, della garanzia che la FM offre.
Per stimare questa quota bisogna avere un’idea dei redditi dei laureati che la proposta sarebbe in grado di generare. Si tratta di una stima difficile da fare, proprio perché la proposta si propone di cambiare la situazione attuale e quindi i dati del passato potrebbero non essere rappresentativi della nuova realtà. Possiamo però formulare un paio di ipotesi che riteniamo circoscrivano, ragionevolmente, il campo delle possibilità.
Una prima ipotesi è che la proposta sia effettivamente in grado di migliorare la qualità dell’offerta formativa e le prospettive di reddito degli studenti, portandole al livello oggi osservato per i laureati di una delle migliori università italiane; in tal caso, stimiamo che la frazione di prestiti non restituita sia nell’ordine del 12%, assumendo 40 anni di vita utile del laureato.
La seconda ipotesi, più pessimista, è che i redditi dei laureati rimangano simili a quelli medi osservati negli ultimi anni; poiché però la nostra proposta si rivolge ai migliori studenti, escludiamo dal calcolo la “coda peggiore” della distribuzione dei redditi. In tal caso la quota non restituita salirebbe al 15%.
Date queste stime, per ogni prestito di 80.000 euro erogato è necessario mettere da parte, a garanzia del mancato rimborso, una cifra tra i 9600 e i 12.000 euro.
Il ruolo degli atenei
Come già detto, nella nostra proposta sono gli atenei (per la precisione non tutti, ma solo quelli aderenti alla sperimentazione) le istituzioni che conferiscono le risorse necessarie per costituire il fondo di garanzia, rinunciando a una parte del loro Fondo di finanziamento ordinario. Non si tratta di filantropia, ma di convenienza economica: l’incentivo a farlo deriva dall’aumento complessivo di risorse che così essi otterrebbero.
Un ateneo che alzi le tasse universitarie (in media) a 7500 euro, otterrebbe un incremento di risorse dato dalla differenza tra tale valore e quello medio oggi prevalente (che, conservativamente, stimiamo in 1750 euro), per ciascuno dei 5 anni di corso a cui il prestito si commisura. Sarebbe perciò un aumento di quasi 29.000 euro. A ciò va sottratta la garanzia di 9600-12.000; l’aumento netto di risorse, per ciascuno studente, sarebbe perciò di circa 17.000-19.000 euro. Il conferimento da parte di un ateneo di una quota del suo FFO porterebbe cioè a un aumento netto di risorse pari in media a 2 volte la quota conferita. Un ateneo che, partecipando al nostro schema, fosse capace di creare in modo credibile nuovi corsi di laurea eccellenti per 500 studenti, dovrebbe mettere da parte una garanzia tra i 4.8 e i 6 milioni di euro all’anno, raccogliendo in cambio circa 14 milioni e mezzo di risorse addizionali annue; si tratta di quasi 10 milioni di risorse fresche sufficienti a finanziare quei corsi, lasciando anche margini per parziali redistribuzioni al resto dell’ateneo.
Aumentare le dimensioni del programma a un numero maggiore di studenti, obiettivo in sé desiderabile, richiederebbe di allentare i criteri sul merito per la concessione del prestito; questo probabilmente aumenterebbe il rischio che la frazione di prestiti non restituita sia maggiore, richiederebbe una maggiore garanzia e ridurrebbe il beneficio netto. Se e quando la crisi finanziaria dello Stato sarà superata, rendendo possibile una maggiore garanzia pubblica per i prestiti, il programma potrà eventualmente essere allargato a un numero maggiore di studenti.
Il ruolo del ministero
Il MIUR deve concedere agli atenei che intendono partecipare allo schema la possibilità di aumentare le tasse universitarie al valore medio per studente di 7500 euro annui, pur differenziandole secondo il reddito della famiglia d’origine. Deve inoltre concedere agli atenei l’autonomia per disegnare liberamente l’offerta formativa, chiamare i migliori docenti, anche dall’estero, con retribuzioni adeguate, acquistare attrezzature d’avanguardia senza vincoli burocratici. Proprio il miglioramento dell’offerta didattica, generato dalle risorse aggiuntive, dai docenti più qualificati e dalla maggiore autonomia delle università, crea l’incentivo per gli studenti a scegliere bene, con attenzione al valore reale del titolo, non a quello legale. E dal canto loro le università hanno un incentivo ad attrarre gli studenti destinatari dei prestiti, in modo da acquisire le maggiori risorse da essi portate. Gli studenti, infatti, potranno utilizzare il prestito solo nei corsi di laurea per i quali gli atenei intendono partecipare allo schema. Le università avranno quindi un incentivo molto forte a partecipare per prime.
4) Risposte all’ obiezione di chi vuole una “università gratis per tutti”
Proposte di questo tenore provocano l’immediata indignazione di chi pensa che l’università debba essere necessariamente “gratis per tutti”. È uno slogan molto efficace. Ma è sbagliato per almeno tre ragioni.
In primo luogo si tratta di uno slogan illusorio: la questione non è se l’università debba essere gratis o a pagamento, ma se il suo costo, che comunque c’è, debba essere coperto da tutti i contribuenti o maggiormente da coloro che la frequentano. La prima possibilità genera un paradosso difficilmente accettabile: oggi in Italia la parte preponderante delle famiglie più povere paga l’università ai figli di quelle più ricche.Possiamo stimare (su dati 2008/09) che le famiglie (relativamente) più povere (in cui nessuno guadagna più di 31.000 euro lordi l’anno) e che non hanno figli all’università (queste famiglie raccolgono circa il 60% dei contribuenti) trasferiscono circa 2,5 miliardi all’anno alle famiglie con figli all’università: tra queste, circa la metà sono composte da contribuenti più ricchi. Si tratta quindi di un trasferimento dai più poveri ai più ricchi di circa 1,4 miliardi l’anno. L’altra parte dei 2,5 miliardi va a contribuenti altrettanto poveri; ma i futuri laureati di quelle famiglie avranno redditi più elevati (questo ci dicono tutte le statistiche), e saranno quindi i ricchi di domani (almeno, relativamente parlando); quindi, anche questo è un trasferimento da poveri a ricchi.
In secondo luogo, per i giovani meno abbienti, la borsa di studio restituibile da noi disegnata è un potente strumento di equità. Sostituisce la capacità personale alla casualità dell’appartenenza familiare: con questa borsa non sono i redditi correnti (dei genitori) a essere importanti, ma quelli futuri (del laureato). Inoltre, la componente assicurativa che è implicita nel meccanismo di rimborso previsto dal finanziamento dovrebbe essere particolarmente apprezzata proprio da chi viene da famiglie economicamente svantaggiate, più soggette a vincoli di liquidità e più avverse al rischio: rende perciò più facile, ai ragazzi provenienti da quelle famiglie, iscriversi all’università.
In terzo luogo, un sistema di prestiti agli studenti così congegnato consente di convogliare maggiori risorse agli atenei che le meritano, senza gravare sullo Stato e aumentando la qualità del sistema universitario, grazie alla pressione concorrenziale esercitata sugli atenei stessi dalle scelte degli studenti: avere fiducia in loro è la chiave di volta.
5) Conclusioni
La nostra proposta non è l’ennesimo intervento dirigista sull’università, con obblighi e divieti per tutti. Vogliamo iniettare nel sistema una dose di concorrenza, e lasciare autonomia ai vari attori. Non ci sarebbero, a priori, atenei di serie A o B: tutti potrebbero partecipare a questo gioco a somma positiva, purché sappiano costruire un’offerta convincente che attragga nuove risorse. Sarebbe però una libera scelta: se lo preferissero, potrebbero anche andare avanti col vecchio sistema.