E così, alla fine anche l’Italia ha dovuto capitolare di fronte alla realtà delle cose ed ha dovuto stilare un insieme di codicilli che tenessero conto di uno stato di necessità: quello appunto generato dal fatto che le cose stanno come sono, e non altrimenti, ovvero come vogliono che siano Tizio o Caio o Sempronio, siano essi o meno latori di istanze collettive oppure no. Che il Sacro Vincolo del Matrimonio fosse sistematicamente disatteso, ignorato, bypassato, messo a dura prova e infine troncato, more modo gordiano, nella stragrande maggioranza dei casi era infatti ormai notizia che non faceva più notizia, tipo, cane morde croccantino. La società industriale contemporanea, con le sue promesse relazionali degne di un supermercato ben fornito, da tempo si era lasciata alle spalle la propaganda della necessità del legame duraturo; che poi il risultato sia felice, o anche solo sopportabile, è tutto da vedersi, ma non è certamente con i se e con i ma che si costruisce il quotidiano.
Che del resto c’è il rischio che non si costruisca affatto, né in un modo, né nell’altro: lo si vive per come viene, e stop. Il fatto che questo quotidiano, all’indomani del passaggio angusto delle Unioni Civili, possa prevedere anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso, dobbiamo dire che non è che ci inquieti più di tanto. Non ci sembra affatto di correre il rischio di poter improvvisamente diventare anche noi gay (usiamo questo termine modaiolo per evitare comprensibili censure) se altri, gay, pigliano e si mettono a coabitare. Anche perché in molti casi già lo facevano da un pezzo. Adesso che ci pensiamo: note, controllare se per caso non siamo diventati pure noi gay senza saperlo. E’ un po’ come assistere, molti anni dopo, alla replica della bagarre sul quanto sia opportuno o meno che lo Stato si faccia partecipe del sistema della prostituzione.
La Senatrice Merlin portò avanti la sua palla, per la verità non esattamente frenata da un catenaccio, la infilò in porta nel silenzio assordante degli spalti, goal. Oggi prendiamo atto del fatto che la prostituzione, chiuse le case allora aperte, è dilagata nelle strade e si è fatta cavallo di, ehm, Ilio, per una serie pressoché infinita di reati, tra i quali molti spaventosi, e da più parti si leva – sempre flebilissima – la vocina del buon senso di poi, se cioè non fosse stato meglio sforzarsi di regolamentare una cosa di per se stessa incancellabile. Oggi, mutatis mutandis, il secondo tempo: data la natura delle cose e delle persone in ogni caso ineliminabile si sarebbe voluto negare la realtà e mettere la gente sotto una ideale pentola a pressione per l’eternità, lasciando che le coppie di fatto si formassero di fatto senza prenderle in considerazione.
Il che non è soltanto stupido oltre ogni dire da un punto di vista della pura logica, ma anche estremamente disfunzionale da un punto di vista sociale. La cosa che è passata più inosservata ai tanti chiacchieratori della Cirinnà è che essa non è tanto la morte del matrimonio cattolico, quanto la regolamentazione – ancora acerba e suscettibile di miglioramenti – della convivenza stretto termine. Le critiche ad una simile impostazione fanno un po’ ridere, se non piangere, in un Paese che da sempre fa cassa sulla capacità dei propri cittadini di sopperire alle atroci mancanze del Welfare, da sempre uno dei più miserabili tra quelli dei Paesi industrializzati, che si pone tuttavia, pubblicamente, come vessillo e baluardo dell’idea di Famiglia. La quale Famiglia è, da sempre, tenuta – proprio a norma di legge – ad arrangiarsi da sola, perché se aspetta un aiuto dalla collettività (la quale comunque chiede ad essa una mole non indifferente di servizi e alla quale delega numerosissimi compiti) sta proprio fresca.
Ecco; quello che oggi con le tanto vituperate e discusse leggi appena entrate in vigore viene permesso è la possibilità di una sopravvivenza delle micro collettività che comunque in ogni caso vanno formandosi sotto la spinta di un sentimento, di un bisogno, di una scelta di vita e che non vogliono o non possono ricorrere alla legittimazione dell’istituto del matrimonio. Non a caso parliamo di istituto, anziché di vincolo; perché nonostante questi due aspetti finiscano poi nella realtà per coincidere, va osservato come la realtà del matrimonio sia quella di un contratto sociale pienamente riconosciuto e caratterizzato da diritti come da doveri, sul quale poi si imperniano tante belle idee che possono, oppure no, essere ricondotte a ideali morali religione idee, ma anche non necessariamente.
L’unico matrimonio legale è, per definizione, quello a norma di legge, non già quello religioso. E ad essere legittimate qui non sono solo le unioni gay, che rappresentano, è opportuno dirlo, una ristretta minoranza del totale, anche a voler essere larghi; no, sono tutte quelle situazioni marginali, di frangia, oppure consolidate da decenni che vedevano una famiglia di fatto non potersi prendere cura di se stessa se non ricorrendo a bizantinismi del tutto superflui quando le soluzioni più logiche sono anche quelle più normali. Diritti e doveri di cura, reversibilità di oneri ed onori, capacità di contribuzione al benessere comune: sono tutte cose che non si capisce per quale motivo sia un problema estendere a tutti, dal punto di vista di un riconoscimento giuridico.
E poi, i fronti che si aprono sono infiniti, e sono passati in secondo piano contro le tante asfissianti sciocchezze su peccati e degradi morali: le ricadute sul mondo del lavoro, dell’istruzione, della cura parentale; la possibilità di creare convivenze funzionali e perfettamente riconosciute anche al di là dell’aspetto affettivo e sentimentale, perché cosa impedisce ora di creare nuclei basati sull’amicalità, sul comune intendere, sulla logica della sopravvivenza comune?