Nuova alleanza fra paesaggio e ambiente per la transizione ecologica

Parla Fausto Ferruzza di Legambiente: la conflittualità non serve a nessuno

Le questioni legate al paesaggio hanno senza dubbio aree comuni con quelle legate all’ambiente. D’altro canto, il dibattito, a fronte anche dei cambiamenti climatici in corso, si fa sempre più rovente. Sul tema abbiamo interpellato Fausto Ferruzza, responsabile nazionale Paesaggio per Legambiente, oltre a presidente di Legambiente Toscana, per capire in che modo si potranno affrontare le sfide ardue che si sta prospettando il futuro. 

Paesaggio e ambiente, due concetti che nell’accezione comune vengono spessi usati indifferentemente. Qual è la differenziazione?

“Paesaggio e ambiente sono termini senz’altro contigui che si relazionano fra di loro, che hanno tanti campi di intersezione. Andando a scandagliare l’etimologia delle due parole, si giunge a comprendere meglio i campi di interesse. I due lemmi sono abbastanza diversi: “paesaggio” viene dal verbo latino pangere, da cui deriva pure il sostantivo pagus, possedimento, podere, appezzamento di terra. Pangere significa “conficcare nel terreno”, “segnare i confini”, “assegnare le distinzioni della proprietà”. Il termine italiano “Paesaggio”, omologo al paysage francese (che ha la stessa origine), ci propone così la suggestione del mosaico. Infatti, se si vede dall’alto, un territorio ci appare come un mosaico, formato dalle “tessere” dei più diversi usi del suolo. Dunque, il paesaggio è un concetto che ha a che fare col territorio, ma anche con la nostra percezione (soggettiva) di esso. Quindi, è la conformazione morfologica di un territorio così come percepita da noi esseri umani, che traiamo da questa percezione motivazioni, emozioni e convincimenti anche molto diversi. Come in tutte le realtà estetiche, c’è infatti una materia percepita (oggettiva) e un soggetto percepente che è diverso l’uno dall’altro. Chi si è imbevuto di una certa cultura visiva, delle arti figurative, ha molto probabilmente più sensibilità a percepire un certo tipo di paesaggio. Il paesaggio quindi non è dato per sempre, c’è un paesaggio per ogni fruitore (o spettatore). Il lemma ambiente proviene invece dal verbo latino ambire, “stare attorno”, “circondare”, e quindi, dal suo participio presente ambiens. In poche parole AMBIENTE è tutto ciò che ci circonda. È termine dunque più fisico, oggettivo, direi freddo, che però comporta ciò che lo compone: aria, acqua, suolo, sottosuolo. Come è evidente, da una parte c’è la percezione della realtà, dall’altra l’oggettività delle cose che ci circondano”. 

A fronte dei due concetti e della mutazione che l’attività umana in primis, ma anche dinamiche naturali, imprimono all’ambiente, come vi ponete nei confronti delle modifiche del paesaggio?

“Legambiente non ha mai nascosto che nella percezione del paesaggio si deve tenere conto della coevoluzione delle attività umane. Forse, fra tutte le associazioni ambientaliste, siamo la meno conservatrice. Siamo profondamente convinti che il paesaggio co-evolva con noi. Si tratta di capire come farlo co-evolvere. Il termine vero della dicotomia non è “paesaggio immutabile versus paesaggio trasformabile”, così come nella vulgata comune. Il tema vero è come governare le trasformazioni del paesaggio in termini sostenibili e armonici. Da questo punto di vista, anche il tema della transizione ecologica che attiene più al lemma ambiente, deve contemperarsi con un governo delle trasformazioni del paesaggio che rendano questa evoluzione accettabile agli occhi di tutti”.

Legambiente quindi non scarta a priori l’idea della trasformazione del paesaggio, ma questa deve essere controllata e gestita. Chi sceglie i criteri, chi li “fa”?

“Partendo dagli strumenti che ci sono già. C’è un Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (cit. D.Lgs. 42/2004), più volte emendato, arricchito e integrato, che è una sorta di Testo Unico sul Paesaggio. Faccio presente che questo codice ha assorbito e sussunto tutte le leggi precedenti sui beni culturali e paesaggistici, dalle leggi del 1939 alla legge Galasso del 1985, che stabiliva l’obbligatorietà delle Regioni di procedere alla redazione dei Piani Paesaggistici. Quest’ultimo strumento è senz’altro quello più adatto affinché le Regioni, con tutte le loro specificità, governino i loro territori. Faccio presente però che per diventare cogente, un piano paesaggistico con le proprie prescrizioni e obiettivi di qualità, deve essere co-pianificato con il Ministero della Cultura. Questa co-pianificazione in Italia ha avuto effettivamente luogo solo per 5 regioni: Puglia, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Piemonte e, più recentemente, Lazio. La Sicilia ha una situazione peculiare con i propri piani paesaggistici provinciali, derivatigli dallo Statuto Speciale. La Sardegna ha invece un piano paesaggistico anticipatore su tutti gli altri, del 2006, ma quel Piano (noto come piano Soru) si concentrava – nella parte prescrittiva – sull’ambito costiero, non normando l’interno, la montagna, le aree rurali. Il motivo per cui ricordo questo, è perché sarebbe proprio con la co-pianificazione che si risponderebbe alla domanda su come si governa la trasformazione. Il piano paesaggistico, lungi dall’essere strumento di appesantimento, rappresenta il luogo in cui preventivamente i tre livelli, enti locali, regioni e livello centrale ovvero il ministero della cultura, collaborano e condividono i quadri conoscitivi, gli obiettivi di qualità, le direttive e infine le prescrizioni. Quindi, ci sarebbe intanto da completare questo grande disegno di co-pianificazione, facendo sì che tutte le Regioni abbiano un Piano Paesaggistico vigente e prescrittivo. La condivisione interistituzionale dei piani paesaggistici rispondeva infatti a elementari principi di sussidiarietà, prevenendo e risolvendo sul nascere eventuali conflittualità”. 

Quanto pesa sulla questione il principio della salvaguardia dell’ambiente?

“Un ulteriore elemento che si ritrova nell’attuale dibattito riguarda la modifica intervenuta nel febbraio 2022 dell’art. 9 della Costituzione, che conferma certo la tutela del paesaggio, affermando però in modo altrettanto chiaro la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni. Ciò significa che se si vive in un paesaggio (pure apparentemente bellissimo) che ha le matrici terra, aria, acqua, suolo, inquinate e/o da recuperare, si crea un problema di discrasia fra percezione soggettiva e realtà oggettiva. Ciò che diciamo come Legambiente, è che queste due grandi istanze debbano vivere una nuova simbiosi, postulando una nuova alleanza. Non è semplice, perché una transizione ecologica che dovrà essere realizzata anche coi fondi del PNRR vive anche sullo slancio e la necessità di una rivoluzione energetica (risparmio, efficienza, sviluppo ovunque delle fonti rinnovabili) che ha tempi rapidissimi. La febbre del pianeta d’altronde ci impone misure urgenti e risolute”. 

Milano, 12/12/2015. Congresso nazionale di Legambiente. Fausto Ferruzza. Foto ©DarioOrlandi2015 (www.darioorlandi.com)

Rinnovabili, transizione energetica. Saranno e sono già in essere mutamenti del paesaggio, polemiche in corso, come quella di voler vietare il fotovoltaico nei centri storici, in particolare a Firenze.

“Ovviamente esistono aree (poche) in cui installare il fotovoltaico non è possibile, però ce ne sono moltissime altre dove non solo è possibile ma necessario intervenire. Aggiungo: in pregiati quartieri ottocenteschi delle nostre città, dove si vedono antenne, parabole satellitari, condizionatori faccia/vista, sorge spontanea la domanda: quale lesione di una presunta verginità percettiva può rappresentare la collocazione di un pannello fotovoltaico? Tra l’altro, la tecnologia traslucida e mimetizzante permette ai pannelli di nuova generazione d’inserirsi in modo perfettamente armonico nei nostri paesaggi urbani. Questo postula una necessità inderogabile, e cioè che la conversione ecologica parta innanzitutto dalle nostre teste, nella nostra postura mentale”. 

Cosa vuol dire?

“Se non ci liberiamo di qualche incrostazione ottocentesca, per la quale le nostre città e i nostri borghi diventerebbero simulacri di cartoline improbabili e poco credibili, credo che questa rivoluzione culturale che la conversione ecologica comporta – non avverrà mai. Nella mia associazione, sono in un certo senso un creatore di ponti. Queste due grandi tematiche, paesaggio e ambiente, nell’ultimo periodo sono entrate in conflitto. Ci sono i difensori del paesaggio tal quale, che non vogliono sentire parlare minimamente di alcuna alterazione dello status quo, e dall’altra parte, forse con un eccesso di zelo, c’è chi vorrebbe tappezzare ovunque e comunque di progetti il nostro territorio. Credo che dobbiamo avere il coraggio di pronunciare una parola decisiva, che è “Equilibrio”. I progetti che declineranno la conversione ecologica (in Italia come in Toscana) vanno fatti, ma vanno fatti bene. Dall’Europa ci vengono gradienti di produzione di energia da fonti rinnovabili, con obiettivi declinati per ogni regione. L’obiettivo è cancellare ogni dipendenza dalle fonti fossili (metano, carbone, petrolio), per dar vita a un mix di fonti rinnovabili diverse. Questo avverrà a ogni latitudine del nostro Paese. Ciò che dobbiamo fare, è accompagnare questa rivoluzione con una pianificazione condivisa delle aree idonee nelle quali inserire questi progetti, e, voglio dirlo con grande chiarezza, con dei team di progetto che siano quanto più multidisciplinari (ingegneri, architetti, agronomi, ma anche paesaggisti)”. 

Quindi, occorre interdisciplinarietà per uno sviluppo armonico della rivoluzione verde?

“Esatto. Occorre partire dal territorio, dalle sue caratteristiche oggettive. Gli ingegneri energetici saranno ovviamente fondamentali nell’attingere i dati anemometrici per la fonte eolica (o di esposizione all’irraggiamento solare nel caso del FV) – per poi progettare impianti adeguati. Ma dobbiamo pure pretendere che nei team di progetto di queste aziende proponenti ci sia anche chi, con garbo e competenza, si preoccupi di declinare e inserire quell’impianto in modo quanto più armonico nel nostro paesaggio. In questa fase, stiamo cercando di dire con una certa insistenza alle aziende che è necessario dotarsi nei propri organigrammi di queste sensibilità e di queste competenze”. 

Quale potrebbe essere il rischio?

“Avverto la possibilità di una conflittualità imminente, prossima, molto forte, in quanto ci sono due schieramenti ultrà e quindi quando si va (magari con un progetto debole) a scaldare la tifoseria dei difensori del paesaggio “status quo”, diventa un muro contro muro improduttivo. Dove a esser sconfitta è solo la comunità. Queste due istanze, necessarie entrambe, debbono trovare invece un connubio. Al di là della valenza economica del paesaggio, inteso qui come detonatore di marketing territoriale, ricordo l’urgenza dell’istanza ecologica, che ci dovrebbe far sopravvivere come specie, in un momento in cui siamo a 420 ppm di concentrazione di C02 in atmosfera, quando a 450 ppm la comunità scientifica ci dice che si innescheranno meccanismi irreversibili per l’abitabilità del pianeta. Siamo sulla soglia del baratro. Come tollerare oggi chi derubrica questa dura verità scientifica a mera opinione di qualche scienziato?”. 

Come far convivere queste istanze?

“Dobbiamo pretendere più qualità. L’Italia ha più bisogno di qualità rispetto ad altri Paesi, perché abbiamo un paesaggio unico al mondo, tanto è vario, colto, denso, fatto di tanti episodi storici, che ci racconta di millenni di lavoro, di sofferenza, di servitù e bellezza. Quel paesaggio è la nostra storia. L’atterraggio morbido e rispettoso della necessità (morale) della rivoluzione ecologica si fa con la cultura, con una conoscenza ed esperienza profonda dei luoghi, e quindi spronando all’umiltà i progettisti, perché accostarsi con rispetto e prudenza a un territorio è già un buon inizio. Non è una sfida semplice; anzi, fa tremare i polsi. Però so che in Italia possiamo essere l’avanguardia di un ragionamento che tenga conto di tutte queste istanze. Sposare ingegno e bellezza, per il Paese di Leonardo e Michelangelo è un dovere in più che dobbiamo avvertire nei confronti del Mondo”. 

Affrontiamo il tema degli eventi estremi, che affliggono soprattutto quei territori più interessati dalla cementificazione che, come da dati Ispra, sembra non arrestarsi mai. Come pensate si possa tornare a un accettabile compromesso fra necessità della natura ed esigenze umane?

“C’è un tempo della crisi climatica che suggerisce caldamente, al di là di ogni ragionieristico ragionamento su cosa conviene e cosa no, delocalizzare e aprire al terreno vergine. Ovvero: in alcuni casi dobbiamo demolire senza ricostruire. Delocalizzare tout court, per andare a integrare funzioni laddove non si rischia, dove ci sono aree dismesse già urbanizzate, in cui si possono riposizionare le funzioni che si perdono nell’ambito gravato dal rischio. Per intendersi, in Italia ci sono aree dove non si sarebbe mai dovuto costruire, dove oggi non rimane che demolire e restituire alla natura. D’altra parte a chi nel passato ha considerato diseconomica o comunque non conveniente la soluzione della mera Delocalizzazione, domando: quanto ci sono costate le operazioni di emergenza, intervento e ricostruzione in tutte quelle aree che sono state funestate da disastri pseudo/naturali in questi anni? Il tempo ci ha dato ragione. Prima o poi un terreno franoso frana, prima o poi un’area d’esondazione torna a essere fiume. Meglio adattarsi alla crisi climatica restituendo spazio e tempo al respiro naturale dei nostri territori, e quindi anche dei nostri tantissimi corsi d’acqua”.

Eventi estremi che si susseguono ormai con una frequenza di 5-6 anni…

“Per questo dobbiamo agire velocemente. Pericolosità è concetto statistico, rischio invece è concetto economico. Dobbiamo quindi eliminare tutti i fattori di rischio, innanzitutto prevenendo perdite di vite umane e poi anche perdite di natura economica. Per far questo, lo ripeto, dobbiamo inaugurare una grande stagione di delocalizzazioni. Con coraggio e lungimiranza, ce la possiamo fare”.

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