Firenze – “Il giornalismo è un mestiere necessario, ma con strumenti del ventesimo secolo”. John Elkann, presidente di Gedi, non si stanca di ripeterlo ogni volta che incontra giovani aspiranti a quello che una volta era il più bel mestiere del mondo. Secondo Elkann le organizzazioni sono rimaste quelle dell’inizio del secolo scorso e dunque bisogna trovare un rapporto diverso con il lettore nel mondo dei social media.
Tutta da buttare via l’esperienza di una generazione di giornalisti, “l’ultima che ha vissuto l’autenticità del giornalismo fatto di indagini sul territorio, di ricerca di informazioni, di fonti da scoprire , trattare verificare”, come dice Pier Luigi Visci che è stato direttore del Resto del Carlino?
Giuseppe Fedi, uno degli esponenti di punta di questa generazione (Ansa, La Stampa, direttore relazioni esterne Autostrade), non ci crede. Anzi ha deciso di raccogliere le testimonianze dei colleghi che hanno lavorato con lui fianco a fianco nelle redazioni o in giornali concorrenti. Ne è venuto fuori un libro “A Caccia di notizie – Quelli della Lettera 22” (Media & Books) che non solo è raccomandabile ai giovani perché è ricco di consigli e di modelli “sul campo” di ciò che è stata la professione del giornalista fino a vent’anni fa, ma anche al lettore curioso di conoscere quei personaggi che lo hanno aiutato per tanti anni a conoscere e a capire il mondo.
Certo la figura del giornalista per qualche decennio è stata amata, invidiata, ricercata per il potere di “gate keeping” come si dice oggi, quello di colui che apre le porte del sistema della comunicazione, che deteneva, ma anche per quell’aura di personaggio fuori dagli schemi al quale la vita ha concesso di partecipare da vicino, a nome di tutta la comunità dei lettori, agli eventi che fanno la storia. Come Laura Laurenzi (Momento Sera, Il Giorno, la Repubblica) che in via Fani entrò nell’auto di Aldo Moro ancora vibrante per i colpi dei brigatisti e riferì ai suoi lettori alcuni commoventi particolari dell’ultimo giorno da uomo libero del presidente della Dc, che stava leggendo in macchina le tesi dei suoi studenti. O come Ulderico Piernoli (Il Tempo, L’Occhio, Tg2) che la sorte rese protagonista dell’arresto di Angelo Izzo, uno degli assassini del Circeo, mentre fuggiva in via Nomentana.
Indro Montanelli fotografato seduto su una pila di libri e giornali ai lati di una strada mentre batte il suo articolo sui tasti di una Olivetti lettera 22 è l’immagine iconica di questa generazione per la quale è stato quasi un trauma passare da ambienti redazionali dove si doveva parlare ad alta voce per sovrastare il rumore metallico delle macchine da scrivere. “Il silenzio del computer”, per Pier Mario Fasanotti (Ansa, La Stampa, Panorama) è ciò che più esprime il cambiamento del lavoro in redazione: “ A farci bene attenzione, i polpastrelli sui tasti del pc producevano tutti insieme un soffuso rumore di pioggerellina. Amante come sono della pioggia, quel brusio simil-naturale mi cullava e mi dava una sensazione piacevolissima”.
Le testimonianze dei 21 “cronisti del tempo perduto” si focalizzano su di un aspetto della loro vita professionale rimasta emotivamente viva nella memoria. Per Antonio Ferrari (Secolo XIX, Corriere della Sera) c’è il rimpianto di avere dovuto scegliere fra la passione per la cronaca e l’amore di Daniela, quando rinunciò a un viaggio sentimentale con lei per andare a seguire gli sviluppi di un sequestro di persona: “Sul piatto professionale pesano storie d’amore sgretolate dalle continue assenze, rapporti difficili, convivenze tribolate, famiglie distrutte”.
C’è un filo unico che passa attraverso questi racconti e che John Elkann dovrebbe tenere ben presente nella sua ricerca del giornalismo del XXI secolo. Riguarda la natura stessa della professione: “Un vero giornalista non può che essere sempre un cronista” e “un bravo cronista: dovrebbe sapere condividere e praticare: rigore professionale, gusto artigianale, idolatria della notizia, culto del dettaglio e passione della scrittura”, avverte Bruno Manfellotto (Paese Sera, La Repubblica, direttore del Tirreno e dell’Espresso), ricordando la lezione di uno dei più grandi direttori italiani, Arrigo Benedetti che per un anno diresse Paese Sera. E tanti personaggi che compaiono nel libro riaffermano lo stesso principio: Ferruccio de Bortoli (direttore de Il Sole 24 Ore e del Corriere della Sera) “spero di restare sempre un cronista”, per esempio, o Giulio De Benedetti (la Gazzetta del Popolo, direttore della Stampa): “Bisogna essere osservatori imparziali, raccontare quello che si vede cercando di trasmettere in chi legge l’atmosfera del momento”.
I racconti di scoop eccezionali o semplicemente di aneddoti che compaiono nelle testimonianze sono l’applicazione pratica di questi semplici principi sempre più validi in un mondo inondato di informazione di bassa qualità, soggettiva, non verificata, spesso falsa e fuorviante, la cui forza di penetrazione è esaltata dai canali multimediali di Internet: “Quando la notizia vera si mette le scarpe, quella falsa sta già correndo”, avvertono gli esperti di comunicazione.
Questo è sicuramente il criterio che ha spinto Fedi ad aprire la serie delle testimonianze con Sergio Lepri, direttore storico dell’agenzia Ansa che ha portato al livello della grandi agenzie internazionali facendone una scuola dalla quale proviene la gran parte dei protagonisti del suo libro. Ecco la grande sfida del giornalismo, dice Lepri: “Se l’informazione è sempre più indispensabile come strumento di conoscenza e come strumento di lavoro, l’informazione deve essere corretta e quanto più possibile esatta. La sopravvivenza delle agenzie di informazione, cioè la necessità di ricorrere ad esse come sicuri organi di base, dipende quindi dalla misura in cui la loro mediazione significhi non soltanto gestione delle informazioni che circolano fuori dalla Rete e dentro la Rete, ma anche verifica e controllo di quelle informazioni. Una mediazione che sia soprattutto mediazione di verità: e se la parola verità fa un po’ paura, diciamo: una mediazione di qualità”.
Con questi occhiali leggiamo il racconto del terremoto dell’Irpinia di Antonio Padellaro (Corriere della Sera, direttore del Fatto quotidiano), quello di Paolo Conti (Il Corriere della Sera) che rischia la vita per trovare la tomba del padre del dittatore Slobodan Milosevic morto suicida, e la cronaca dei funerali di Aldo Moro dettata a braccio da Giuseppe Fedi.
Chiude il volume una raccomandazione di Filippo Ceccarelli (Panorama, La Stampa, la Repubblica) che narra della vita dei cronisti parlamentari: “Nessuno mancava di rispetto ai vecchietti. Rappresentavano il passato. Le istituzioni ne hanno sempre bisogno come del futuro”. Ascoltate le lezioni dei “vecchietti” del libro di Fedi.
Foto: Indro Montanelli