Firenze – Scende in campo di nuovo una donna, dopo la biologa Elisabetta Cerbai candidatasi senza fortuna nella scorsa tornata elettorale, per rivestire la carica di Rettore dell’Ateneo Fiorentino. Alessandra Petrucci, che ha dato l’ufficialità della sua candidatura in una lettera rivolta alla comunità universitaria agli inizi del mese, si misurerà con l’ex preside di Economia Gaetano Aiello, primo candidato a rompere gli indugi. Petrucci, professore ordinario di statistica sociale, consigliera di amministrazione e membro eletto del Consiglio Universitario Nazionale, ha ricoperto anche l’incarico di Direttore del dipartimento di Statistica, Informatica, Applicazioni, potrebbe dunque essere la prima donna a guidare l’Ateneo fiorentino.
Un momento particolarmente delicato quello che sta vivendo l’Università cittadina, “una situazione su cui spero che venga fatta chiarezza al più presto”, commenta la docente, raggiunta da Stamp.
“In un certo senso si può dire che è stata una scelta naturale, nelle cose: da più di 10 anni mi occupo di “politica accademica”. Ho iniziato come consigliere eletto al Consiglio nazionale Universitario, consigliere d’amministrazione nel corso del Rettorato di Alberto Tesi, poi Direttore di Dipartimento e in Senato accademico. Ho coltivato questi interessi dapprima a livello nazionale, poi, calata nel locale come Direttore di Dipartimento, ho avuto modo di toccare con mano la macchina dal basso. Ho vissuto davvero la macchina universitaria in tutti i suoi aspetti, avendo modo, in particolare con l’esperienza locale, di toccare tutti i tasti del congegno a 360 gradi. Devo dire che ciò che è scattato, fra le altre cose, è un forte sentimento di restituzione, la sensazione che fosse giunto il momento di restituire a servizio dell’Ateneo l’esperienza acquisita”.
Sarebbe la prima donna a ricoprire la carica di rettore. Un’impresa che, anche solo per il fatto di mettersi in lizza, dopo la prova della professoressa Cerbai, incoraggia senz’altro le donne al di là dei proclami a farsi avanti in campi spesso solo apparentemente liberi da pregiudizi. Ma nel dato concreto dell’esercizio delle mansioni di “governo”, in cosa l’essere donna può fare la differenza?
“Intanto, credo che la testimonianza reale della candidatura femminile, secondo il primo profilo della sua domanda, possa essere significativo, al di là delle molte parole che si spendono in merito. Generalmente le donne partono ‘un passo indietro’, a parità di risultati si devono impegnare di più e che quello che conta, più che essere donna, è essere competente. A parità di competenze, c’è un quid femminile che è valore aggiunto in una università equigenere. Quanto al valore aggiunto, credo di poter sottolineare la possibilità che offriamo di vedere le cose da un punto di vista diverso. Spesso la soluzione di un problema complesso si trova uscendo da schemi prefissati, ricorrendo a un cambio del punto di vista. E’ un’esperienza nuova e da buona statistica posso dire che non abbiamo un’evidenza che ci dice che è migliore o peggiore, però senz’altro dobbiamo mettere in campo il concetto di pari opportunità di cui spesso si abusa. Pari opportunità vuol dire “mettere in condizione di”, altrimenti non si può giudicare. Stiamo vivendo in un periodo storico in cui da un parte c’è un gran parlare di difesa delle donne e del loro diritto a svolgere tutti i ruoli della società, dall’altra assistiamo al montare della violenza nei confronti del genere femminile, pubblica e privata, come i recenti fatti di cronaca suggeriscono. E’ una lunga riflessione ancora in corso, e bene fa il presidente della Repubblica a richiamare sempre questo problema. Del resto, sono i numeri a parlare chiaro: per quanto riguarda la composizione del corpo elettorale accademico, le donne non sono rappresentate in maniera paritaria, 60% uomini 40% donne. Sui ruoli poi si sa che c’è una numerosità inferiore, che si può declinare sinteticamente in “meno possibilità meno chances”. Per quanto riguarda i professori ordinari, il 30% sono donne, 70% uomini. Già questo la dice lunga”.
A fronte della pandemia che in qualche modo costituisce senz’altro un momento di svolta, come pensa che si possa reimposta
re l’Università che dovrà produrre conoscenze adeguate, formazione, eccellenze, ricerca? E cosa risponde alla convinzione di molti, in particolare fra gli studenti ma propria anche di svariati pensatori e docenti, che l’Università stia diventando sempre più esclusiva?
“L’Università esclusiva, per pochi, è il prodotto di un momento storico in cui si va verso un modello competitivo. Forse adesso dovremmo trovare modelli di network, i modelli di competizione potrebbero aver mostrato, proprio in tempi difficili come i nostri, i loro lati deboli. Premesso che non si sta attaccando il merito, in quanto rimane una molla indispensabile per il sistema della conoscenza a potrei dire umano, bisognerebbe trovare modalità nuove per affrontare un futuro, complesso, che ci ha visto rispondere a una pandemia che ci ha colti di sorpresa con soluzioni emergenziali. Ritengo che queste risposte e soluzioni dovrebbero essere invece governate, mettendole a sistema e applicando le innovazioni utilizzate. Non possiamo rimanere incatenati a schemi che sono un punto di cesura. Il vero punto è: vediamo subito cosa si può fare. L’emergenzialità, le difficoltà e le soluzioni di questi tempi potrebbero essere anche una piattaforma che ci aiuta ad andare avanti. Più in generale, ritengo che l’Università non possa sottrarsi al dovere di servire il Paese. È la fabbrica del sapere. Non possiamo fermarla, pena la distanza dall’Europa. Dunque, per stare in rete con le altre università europee non possiamo rimanere indietro, ma dobbiamo pensare a un modello di rete partecipativa e collaborativa. Forse l’idea è anche quella di alzare gli standard di qualità, produrre, a livello nazionale, un alto standard qualitativo. Un punto importante per ottenere la qualità della formazione è che uno studente, ma anche un docente non deve sentirsi solo. Anche questo non è giusto. Il docente ha un ruolo complesso fra ricerca, didattica, terza missione. E’ in merito a tutto ciò che un Ateneo dovrebbe cercare di metterlo “in condizioni di”, altrimenti ognuno cerca soluzioni personali, proprie, che magari confliggono con quelle di altri, finendo per essere soluzioni che non si armonizzano e che quindi minano la stabilità dell’intero sistema”.
Si tratta senz’altro di problemi reali, annosi e complicati, come penserebbe di affrontarli?
“Intanto, è forse banale dirlo, aspettiamo: l’Ateneo deve fare i conti con il sistema nazionale, inquadrato da governo e ministero. Nel PNRR, come è noto, c’è un obiettivo che riguarda ricerca istruzione. Aspettiamo consapevoli che per la ripartenza serve un’iniezione da cavallo. Si inizia una fase nuova. Bisogna capire quali sono le indicazioni e come si possono recepire. Ancora, nel momento in cui giungono le risorse, come si impiegano?
“Ci sono alcuni punti con cui è impensabile non fare i conti. Fra questi, il tema delle risorse umane, intese non solo come corpo docente, ma anche personale tecnico-amministrativo. Negli ultimi tempi ci sono state svariate uscite per pensionamenti, ad esempio, con la possibilità di inserire persone giovani, con un altro tipo di formazione per il supporto importante alla ripresa della macchina.
Il punto fondamentale è che investire sulla risorsa significa anche creare condizioni in cui le persone amino stare dove vogliono stare, si sentano utili e compatibilmente con inquadramenti e regole, valorizzati. .
Un altro elemento che mi sta molto a cuore è la didattica, un argomento pieno di sfide in particolare in questo momento, in cui si tratta di investire su una vera e propria transizione digitale. Una transizione che non può prescindere dall’altro grande tema della sostenibilità, che abbraccia un po’ tutto, a partire dall’ambiente fino alla stessa didattica, che significa anche dare agli studenti corsi che possano seguire, creare la professionalità personale vicino a temi importanti nell’attualità, con un aggancio agli indicatori di sostenibilità e con obiettivi che si sviluppino in un’ottica maggiormente proiettata su questi temi. La ricerca in un certo senso è facilitata, muovendosi in un terreno pilota, mentre la didattica sconta ancora di più rispetto alla ricerca problemi di inerzia burocratica, dalla definizione alla valutazione dei corsi, dove davvero il retaggio burocratico rischia di divenire insostenibile.
Tutto ciò ci porta dritti dritti al tema della semplificazione, che al di là del fatto che viene spesso menzionato anche forse non proprio a proposito, è un principio ineludibile rispetto a quanto si prospettava. In pratica, è necessario, a mio parere, provare a entrare nei processi accademici e vedere ciò che si può fare. D’accordo l’attesa delle risorse, ma intanto l’analisi e la disanima delle cose si possono comunque intraprendere, per magari mettere in campo anche piccole soluzioni che spesso vengono recepite dalla nomenclatura burocratica in quanto capaci di aiutare i processi rendendoli meno complessi e più facili. Insomma, dovremo elaborare insieme soluzioni che governino, e non subiscano, il futuro”.