Essere più pirandelliani di Pirandello mi pareva un’impresa impossibile, non fosse stata affrontata da Gabriele Lavia.
Il tentativo di prendere in mano la più stringata tra le opere teatrali del maestro siciliano per estenderla in una sorta di concentrato del pensiero pirandelliano avrebbe potuto essere troppo. Ma per una strana e delicata alchimia, invece, non è stato così. Tenacemente intenso, quest’Uomo dal fiore in bocca, turbato, quasi eccessivamente irrazionale malgrado i suoi ragionamenti adamantini… e l’opera intera si svolge con leggerezza imponderabile.
Preda dei preconcetti, positivi nel caso di Lavia e negativi nel caso dell’esperimento da lui intrapreso, mi trovo a dover ammettere che hanno vinto i primi.
Sarà che le due poetiche teatrali tendono naturalmente a convergere, che la sensibilità di uno si fonde e si incarna profondamente nell’istrionica capacità performativa dell’altro; sarà che il linguaggio di uno appartiene profondamente nelle sue radici anche all’altro, e sarà la passione per il teatro, per la messa in scena decorticata del più duro nocciolo dello spirito umano.
Un’ora e mezza circa di quasi monologo, dentro un allestimento d’altri tempi (per la qualità generale e non per la collocazione temporale), in cui scenografia, musica e luci sostengono in maniera pregevolissima non solo la sceneggiatura riadattata, ma anche la recitazione intensa di un personaggio sofferto e loquacemente compulsivo, travolto dalle parole, dal loro senso, dalla loro verità, come lo è il pubblico.
Si parla di morte, di donne, di tenace attaccamento alla fugacità.
Un momento di teatro che, insomma, funziona e non solo perché, in mano a Lavia, i grandi classici sono una certezza.