Siena – Dettare la linea facendosi intervistare pochi giorni prima dello svolgimento della direzione Pd chiamata a decidere è stato un atto di irritante scorrettezza.
Matteo Renzi aveva promesso, dopo la batosta elettorale, di starsene zitto per due anni, ma non ha resistito neppure due settimane, rivelando una smania di comando che ha già dato frutti assai amari. Ha voluto decidere lui. L’analisi che ha sciorinato a «Che tempo che fa», davanti al timoroso Fabio Fazio, il conduttore dai sorrisetti brevi, è stata semplicistica e pregiudiziale.
Anche quanti nel Pd, erano favorevoli ad aprire un serio confronto in vista di un governo possibile non si nascondevano difficoltà enormi, perfino di impostazione. Veniamo al sodo. Perché Renzi ha voluto troncare d’autorità e in prima persona un tentativo probabilmente destinato all’insuccesso?
Dire che si è favorevoli al confronto, ma affermare perentoriamente subito dopo che un governo insieme ai pentastellati non è nemmeno ipotizzabile è demotivare in partenza il senso stesso del dialogo. Che si giustificava solo se sostenuto dalla volontà di verificare alcune convergenze programmatiche da porre alla base di una compagine la cui azione era da soppesare via via con reciproca lealtà. Se manca il fine che senso ha l’irto cammino? Non so quale tempo usare per questi frettolosi appunti: conservo il tempo che avevano alla vigilia.
Quanti errori nel discorrere di Renzi! Il più vistoso è stata la ripetizione quasi gioiosa e liberatoria, allegra e masochistica, di un principio non suffragato dal meccanismo elettorale in essere: «Chi ha perso le elezioni non può andare al governo!» ha ammonito.
Così dicendo ha avallato la convinzione che sia netta e insormontabile la distinzione tra vincitori e vinti. Ma in un sistema di voto che crea una geografia proporzionalistica ci sono indubbiamente liste che hanno registrato un consenso più consistente di altre. Che spetti ai loro rappresentanti sondare, per primi, e da una posizione favorevole guadagnata sul campo, le potenzialità che il quadro sortito dalle urne offre non c’è dubbio, ma la formula da mettere a punto per delineare una maggioranza plausibile sarebbe stata inevitabilmente «consociativa».
Anche il Pri di Ugo La Malfa, per non dire del Psi di Pietro Nenni, disponevano di presenze parlamentari in quantità assai distanti dalla Dc, ma non per questo si sentivano a priori esclusi dalla guida del Paese. È vero che le polemiche erano civili e non degeneravano in sprezzanti insulti o esibizionismo da comico. Temo che tali vizi siano pressoché ineliminabili.
Ogni forza tende all’autosufficienza. Allora che si fa? Tutti fermi a scontrarsi l’uno contro l’altro armati? La civiltà (politica) delle buone maniere è purtroppo finita. Oggi sarebbe stato preferibile aver avuto una legge a carattere maggioritario, magari a doppio turno sul modello francese rivisto e modificato in chiave italiana, ma così non è stato ed è improprio ragionare come se già esistesse uno schema di consolidato bipolarismo.
I flussi elettorali attestano che il senso tradizionale di appartenenza si è sfaldato e che molto hanno inciso fattori anche psicologici, fini contingenti, paure fondate e di qui lo scaturire di speranze affidate a formazioni inedite da mettere alla prova. Mentre Salvini ha imboccato la strada del populismo in salsa lepenista, il magmatico movimento di Grillo ha convogliato consensi di segno contrastante: studi ampiamente pubblicizzati lo dimostrano.
Ebbene: proprio questi elementi consigliavano di sottoporre a esame spietato le proposte gettate con diffidenza e di malavoglia sul tavolo. La lettera che Di Maio ha rivolto ai Dem abbandonava (realmente?) punti indigeribili pur rivelando una certa flessibilità. Talvolta la politica deve avere il coraggio di «dimenticare» (secondo il diabolico Talleyrand), e provare a voltar pagina, mettendo l’avversario alle strette.
Nessuno chiedeva al Pd di assumere una posizione subalterna in un eventuale «contratto» giustificato da morotee e transitorie «convergenze parallele». Allorché la politica è chiamata a sbloccare situazioni che rischiano di portare alla paralisi o ad arretramenti patologici – tale sarebbe un governo di centrodestra organico – deve fare appello ad uno scatto di coraggio e abbandonare paralizzanti borie identitarie.
Echeggiava poi nel discorso di Renzi la logica del «tanto peggio tanto meglio», mai seguita dalla sinistra, anche quando ha dovuto fare i conti con condizioni disperanti. «Se la vedono loro, se son capaci» è uno sfottò degno di una giocosa scommessa paesana, non di una forza che ambisca a giocare un ruolo di compartecipazione alla guida, nella chiarezza degli obiettivi e nella consapevolezza di limiti infrangibili, di profonde differenze.
A me pare, ad esempio, che sia in tema di Unione europea che di Unione economica e monetaria i documenti M5S abbiano quasi eliminato i toni demagogici e sbrigativi del loro «stato nascente». Il reddito cittadinanza nell’espansione prospettata all’inizio non era attuabile, ma le formulazioni più recenti sono mitigate e nessuno più fantastica su un sussidio assistenziale generalizzato.
Erano e sono aperte strade o sentieri che possono favorire una sorta di costituzionalizzazione del M5S: parola grossa immessa nelle controversie da Claudio Velardi. Era questa la via da saggiare per non restare spettatori dinanzi al disastro lasciando la porta aperta ad un’alleanza di centrodestra foriera di sciagure e incognite.
Non solo: Renzi è apparso nel suo stesso linguaggio più populista degli antagonisti. Il suo continuo appello alla «gente», dalle cui opinioni tutto far dipendere, è errato. Far politica non esclude andare controcorrente, mettendo in agenda sacrifici necessari e prudente tenacia. Se l’esperienza avesse rivelato ostacoli insormontabili su questioni essenziali non ci sarebbe stato che da interromperla.
Ciò che Renzi ha detto a Fazio ha fornito un alibi d’oro al M5S per sganciarsi da una trattativa mal subita dai più. Andare alle elezioni avendoci provato era anche tatticamente preferibile ad un diniego pregiudiziale. Quanto al «governo delle regole» o al «governo di tregua» si tratta di vane illusioni, che perpetuerebbero le bizzarrie dell’immobilismo italiano.
Un governo deve governare secondo l’agenda che gli avvenimenti dettano. Un governo non è un ufficio studia. Le regole le fanno i Parlamenti. Renzi è apparso più mosso dall’intento di mantenere gli equilibri interni a suo favore nel disarticolato e fatiscente Pd che dalla volontà di non opporsi a sondare un terreno pericoloso – lo riconosco – ma dagli esiti non scontati. Preferibile sicuramente alla restaurazione di un berlusconismo avvelenato da inquietanti insofferenze razzistiche e da fumose strategie nelle relazioni internazionali. Preferibile anche a formule «tecniche» che confermino l’impotenza di un ceto dirigente debole e sfiduciato.
Roberto Barzanti