Due indagini incrociate, l’Osservatorio Ires Economia e Lavoro 2017 della provincia reggiana a cura di Davide Dazzi e l’Analisi di Bilanci 2008-2015 di 130 imprese promosso da Cgil con lo Studio Baldi & Partners e curato da Stefano Campani, danno un quadro decisamente negativo, ed interrogativo sul futuro, di come Reggio starebbe uscendo (?) dalla famosa crisi che si appresta a “festeggiare” il decennale della sua venuta.
In termini di ricchezza infatti, la misura dell’arretramento parla di un 9% perso lungo la strada; dato ancor più preoccupante se confrontato con quello regionale. Alla faccia del “modello reggiano” infatti, lo scarto a nostro sfavore è di 7 punti rispetto alla media emiliano-romagnola che segna un -2,4%. Perdita più contenuta a Modena, addirittura con segno + a Bologna e Parma a fronte del vistoso tracollo reggiano.
La selezione darwiniana nell’economia locale, dall’inizio della crisi, ci restituisce la percentuale del 7,9% della fine di imprese attive (il 5,7% è il dato regionale) che in valori assoluti significa un saldo negativo di 4200 imprese, di cui 3800 sono imprese artigiane. Anche nel dato positivo del trend dell’export (+4,1% nel 2016 rispetto al 2009), ci sono da fare dei distinguo. Perché nonostante Reggio si collochi tra le prime realtà esportatrici del Paese, l’analisi dello stesso dato ne tradisce una dipendenza critica. Su 3650 imprese esportatrici infatti, le prime 25 fanno il 44% del valore complessivo esportato provocando il fenomeno della polarizzazione del sistema produttivo. L’analisi dei bilanci delle 130 imprese industriali ci dice che le 41 imprese con oltre 100 dipendenti registrano in otto anni un +15% di ricavi e +4,1% di occupati, quelle sotto i 100 addetti (le altre 89), calano sia nel fatturato che nell’occupazione. Il medio-piccolo manifatturiero reggiano è ormai un lontano ricordo.
Insomma il lavoro è sempre più precario e povero anche se il 2016 segna per Reggio un incremento dell’occupazione del 2,3% (dato inferiore rispetto alla media regionale); ma lo scarto dal 2008 è di 16mila unità. Dal Jobs act nel 2016 aumentano dell’8% i licenziamenti individuali mentre l’utilizzo di voucher ammonterebbe ad 1,8 milioni, cioè 3mila occupati ma senza diritti. Penalizzate sono soprattutto i giovani e le donne.
Da questi dati bisognerebbe partire per un confronto a più voci e magari trovando soluzioni differenti rispetto ai tagli, all’austerità ed alla tassazione che continuano a peggiorare la situazione.