Firenze – Ancora code, all’ufficio immigrazione. C’è chi vi si reca per ragguagli sul punto in cui si trova la richiesta di asilo politico, chi per il rinnovo del permesso di soggiorno, chi per altre innumerevoli pratiche. Cè chi deve portare una fotografia, chi un documento che aveva dimenticato o che non era in suo possesso la volta prima. E non è neppure gratis, la fila, perché, fra ninnoli e nannoli, la spesa media di chi per esempio richiede il rinnovo del permesso di soggiorno arriva sempre oltre i 100 euro. Certo, il problema, oggetto di attenzione da parte delle Donne Democratiche, che avevano sollecitato il consiglio comunale con il contributo in particolare del presidente dell’Associaçao Angolana Njinga Mbande Matias Mesquita (https://www.stamptoscana.it/migranti-lunghe-file-e-burocrazia-per-i-documenti-liniziativa-delle-donne-demcratiche/), aveva già avuto risposte importanti (https://www.stamptoscana.it/comune-affianca-questura-acqua-gazebo-e-online-contro-le-code/). Così, in via della Fortezza 17, dove ha sede l’ufficio immigrazione della Questura, ci sono ombreggianti per chi aspetta e gli agenti sono cresciuti di numero, per dare mano a chi si trovasse senza punti di riferimento. Esiste anche l’appuntamento online, ma tutto ciò, a giudicare dalla fila che si sparpaglia sui due lati della strada, non è sufficiente.
“Il vero problema è che, secondo noi – dice Matias Mequita, presidente dell’associazione – a questo punto, tutto ciò che le istituzioni a livello locale potevano fare è stato fatto. Il vero problema quello sì dirimente, riguarda i mezzi di cui la Pubblica Amministrazione dispone. non è accettabile che le perosne debbano ancora oggi, in piena era digitale, recarsi fisicamente in un luogo in cui portare la copia cartacea del proprio contratto di lavoro, o la residenza, le foto, il contratto di affitto. E’ naturale che nonostante l’impegno della Questura e del Comune, il doversi recare in presenza per portare i documenti che danno inizio alle pratiche, comporta l’irrisolvibilità del problema code”. Un problema che coinvolge in particolare chi lavora, che si vede costretto a perdere almeno 4 ore di mattina, pregando i cielo che tutto si a posto e non si debba tornare. Ma che comunque pesa, con la sua lentezza elefentiaca, lentezza che coinvolge, pratiche, procedimenti, documentazioni, emissione di ulteriori documenti, anche le attività degli uffici, la presenza di personale, oltre a “rubare” tempo che potrebbe essere speso più proficuamente, agli utenti. Anche quando non lavorano.
Tutto questo potrebbe essere evitato se la PA italiana mettesse in atto quella rivoluzione digitale di cui ormai si parla da svariati anni, ma che non è ancora diffusa nel circoli lenti della burocrazia. Un esempio immediato, ci avviciniamo a un gruppo di ragazzi giovanissimi, fra i 20 e 30 anni, che provengono dal Pakistan e che in un ottimo inglese spiegano di essere giunti in Italia un mese fa, e che sono in fila dalle prime luci dell’alba per inoltrare la richiesta di asilo politico. Nel frattempo, sembra di capire, sono in attesa degli eventi.
Dunque, tirando le fila, si potrebbe anche definire l’Italia, vista dalla parte di chi vi arriva, il “Paese delle attese”. Ci si mette in coda per inoltrare domande di asilo politico o richieste di status di rifugiato o semplici permessi di soggiorno, si torna in fial per chiedere come va il procedimento o perché la volta scorsa mancava qualcosa, oppure per il rinnovo del permesso. Magari quando ormai è dieci anni che si risiede, si lavora, si pagano le tasse in Italia.
“Sarebbe molto semplice se, con l’informatizzazione del sistema pubblico, si potesse caricare i documenti richiesti da casa, inoltrare tutto a un indirizzo elettronico della PA, rimanere informati tramite accesso telematico, e poi, finito il procedimento, andare semplicemente a ritirare i documenti. Se, naturalmente, non potessero per qualche motivo venire inviati sulla mail personale del richiedente”, sospira il presidente Mesquita.
Il “Paese dell’attesa” non si smentisce anche per quanto riguarda un altro profilo, che è quello del “dopo” accoglienza. “Dovremmo fare un ragionamento su questo tema – dice Matias – in quanto l’Italia tutto sommato accoglie i profughi che scappano dalle guerre o da persecuzioni politiche o anche da situazioni economiche disastrose. Il problema è la gestione del dopo. Tenere nell’inattività le persone, magari aspettando di definirne lo status o magari a definizione avvenuta, fornendo cibo e dove dormire senza occupargli la giornata, magari in corsi di lingua e nell’insegnamento dei mestieri, mettendo in atto una formazione che trasformi il migrante da “fastidio” a risorsa, è operazione deleteria sia per la società che accoglie, sia per gli accolti. Inevitabile che fra le due parti cresca rancore e insofferenza”. La causa, secondo il presidente dell’Associaçao Angolana, è anche in questo caso continuare a replicare vecchie modalità con soggetti che da anni si occupano di accoglienza, senza riuscire a fare uno scatto che porti i migranti accolti ad acquisire gli strumenti per entrare a far parte a pieno titolo della comunità che li accoglie. Da quelli lnguistici a quelli acquisiti con la formazione. Morale, la gente sta in attesa, piazzata lì senza sapere come muoversi. Spesso preda e mercato di criminalità organizzata, menre l’attesa si prolunga. Tirando le fila, è quasi una banalità dire che l’informatizzazione delle banche dati e dei procedimenti burocratici renderebbe più gestibile anche il problema del dopo accoglienza. Unica speranza rimasta, di fronte alle sfide della globalizzazione, al crescere delle migrazioni, alle guerre e ai cambiamenti climatici, che porteranno sempre più persone a bussare alle porte di questo pezzo di mondo, dotarsi di strumento nuovi e veloci. Magari anche grazie ai soldi del Recovery che potrebbero non essere declinati in semplice sicurezza, ma a favore di un’accoglienza capace di valorizzare le risorse umane che giungono in questo Paese.