Parma – Ricevo normalmente informazioni sulla politica internazional for International Peace (CEIP). e dall’Agenzia Carnegie Endowment. E’ un think tank apartitico specializzato in politica estera fondato nel 1910 dall’imprenditore Andrew Carnegie; si propone di favorire la cooperazione tra le nazioni e genera analisi per aiutare paesi e istituzioni ad affrontare i complessi problemi globali.. Le informazioni che fornisce sono interessanti soprattutto in questo drammatico periodo, dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina. Uno degli ultimi articoli pubblicati riguarda invece una guerra di venti anni fa, la seconda Guerra del Golfo: “Remembering the Iraq war – has Washington really learned the lessons?” L’Autore, Chris Chivvis, senior fellow, direttore dell’ American Statecraft Program, con una ventennale esperienza sulla politica internazionale e sulla alla sicurezza nazionale. ne prende spunto per suggerire agli Stati Uniti un comportamento per l’oggi.
Premessa
Il 20 marzo 2003 gli Stati Uniti, alla guida di una coalizione di stati, tra cui l’Italia (ma con l’opposizione di Francia, Germania e Russia) hanno invaso l’Iraq. La guerra costò la perdita di mille miliardi di dollari, migliaia dimorti e feriti americani, centinaia di migliaia di morti iracheni, l’arretramento nella lotta contro al Qaeda, un danno irreparabile al prestigio dell’America. Secondo l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, le ragioni dell’invasione erano di disarmare l’Iraq dalle armi di distruzione di massa, adducendo prove false, fabbricate ad hoc, sulla loro presenza in Iraq; ma queste non furono mai trovate, né fu provata la loro esistenza ; inoltre porre fine al (presunto) sostegno di Saddam Hussein al terrorismo e raggiungere la “libertà” per il popolo iracheno”.
Aggiungiamo che, secondo il giornalista francese Jean Pierre Sèrèni, i morti sono stati almeno seicentocinquantamila e 1.800.000 le persone che hanno abbandonato le loro case, e la vera motivazione dell’aggressione era il controllo delle risorse petrolifere.Questa tesi è sostenuta anche da M. Alan Greenspan: “Deploro che si sia mancato di riconoscere politicamente ciò che tutti sanno: uno dei grandi obiettivi della guerra in Iraq era il petrolio della regione”.
L’Italia non prese parte direttamente all’invasione militare, ma fornì appoggio all’operazione; circa 3.200 uomini vennero inviati in poco tempo dopo la fine delle operazioni militari su larga scala. Nel 2016 gli italiani presenti in Iraq erano 1400, per un costo di 330 milioni. Le spese finalizzate alla cooperazione civile sono di 360 milioni di Euro, a cui si aggiunge una linea di credito d’aiuto per complessivi 400 milioni di Euro. Secondo il report dell’osservatorio Milex, da allora fino al 2018 le spese dell’Italia per le operazioni in Iraq ammontano a circa 2,9 miliardi.
Il 12 novembre i soldati italiani a Nassiriya subirono un attacco che provocò la morte di 19 uomini.
9 aprile: abbattuta la statua di Saddam Hussein
La guerra è terminata nel maggio 2003.
E veniamo all’articolo di Chris Chivvis, che si domanda se gli Stati Uniti, dopo vent’anni, hanno compreso la lezione della guerra. La sua analisi si esprime in cinque punti.
- Gli Stati Uniti, nel decennio che ha seguito la prima Guerra del Golfo, hanno perseguito una strategia imperfetta di contenimennto, con misure economiche e militari coercitive; ma Saddam Hussein le poteva aggirare ed eludere le ispezioni internazionali, e continuare a rappresentare una minaccia per la sua stessa popolazione e per l’intera regione. Comunque, meglio il contenimento che un attacco militare per rovesciarlo.
- Figure chiave come il Vicepresidente Dick Cheney, il Ministro della Difesa Donald Rumsfeld e lo stesso Presidente George W. Bush, probabilmente, agirono sotto l’emozione degli attacchi dell’11 settembre e col terrore si nuovi attacchi; l’emozione ha annebbiato la loro capacità di giudizio.
- Bush tentò di ottenere dalle Nazioni Uniite l’autorizzazione legale all’attacco; ottenne l’adesione di alcuni stati, ma un forte gruppo non lo seguì, non solo Russia e Cina, ma anche tradizionali alleati come Francia e Germania. Così violò lo spirito del multilateralismo e, forse, anche il diritto internazionale. Uno sforzo maggiore per rispondere alle riserve di questi stati avrebbe ridotto i costi diplomatici, finanziari e militari della guerra, e forse l’avrebbe prevenuta.
- Un dibattito aperto è cruciale per evitare visioni strategiche ristrette. L’Amministrazione Bush e buona parte del Congrasso non sono stati in grado di inserire il problema Iraq nel più ampio contesto degli interessi geopolitici dell’America. Questa visione ristretta ha impedito a chi era favorevole all’invasione di rendersi conto del danno che avrebbe apportato ad altri vitali interessi degli USA, come la necessità di distruggere al Qaeda, il sostegno a un ordine internazionale basato su regole condivise, le relazioni diplomatiche con alleati e avversari.
Così fu ignorato un famoso memoriale di William J. Burns, già Assistente Segretario di Stato per il Medio Oriente e Direttore della CIA, nel quale si illustravano i rischi della guerra.
Nel Regno Unito il governo Blair fece lo stesso errore, ignorando le critiche.
- Si supponeva che la guerra sarebbe durata settimane o mesi, ma con i suoi strascichi durò un decennio, se non oltre. Altre guerre, l’intervento in Kosovo alcuni anni prima, quello in Libia pochi anni dopo, e la guerra in Afghanistan durarono molto più a lungo di quanto inizialmente previsto. La Prima Guerra Mondiale si pensava finisse pochi mesi, ma durò oltre quattro dei più drammatici anni della storia mondiale (qualcosa di simile, purtroppo, si potrebbe aggiungere a proposito della guerra in Ucraina).
Pressati dall’urgenzaa di passare all’azione durante la crisi, i leader americani tendono a sottovalutare i costi e le conseguenze della guerra. Il caso Iraq dovrebbe servire come ammonimento ai leader degli Stati Uniti anche oggi.
Joe Biden ha legato la fornitura di armi alla “difesa della libertà”, e ha definito la situazione globale come la “lotta tra la democrazia e l’autocrazia”, proprio come Bush aveva inquadrato la sua politica come “guerra al terrorismo”. Questa impostazione incontra l’ostilità di molte nazioni. La guerra potrebbe durare a lungo. Chris Chivvis conclude che, se la lezione dalla guerra in Iraq non viene pienamente compresa, gli Stati Uniti corrono il rischio di sbandare ancora.
Agiungo io: se gli Stati Uniti insistono a riarmare Zelensky, rinunciando a perseguire seri sforzi per giungere a una tregua sul campo, pur sapendo che nessuna delle due parti potrà vincere, quali sono i loro veri obiettivi? Il crollo di Putin? Ridurre la Russia a potenza di quart’ordine? Indebolire l’Unione Europea?