Ucraina: pace contro giustizia, l’impasse del negoziato

la guerra va fermata con ipotesi davvero credibili e praticabili

Pubblichiamo le riflessioni sulla guerra che sta devastando l’Ucraina e i suoi cittadini, e sulle reazioni che stiamo vivendo qui in Italia, di Francesco Totaro, Presidente del Comitato Scientifico del Centro di Studi Filosofici di Gallarate (ha insegnato filosofia morale in Cattolica, a Ca’ Foscati e a Macerata, e pubblicato saggi su Hegel, Weber, Nietzsche, Gramsci). Le riflessioni sono state scritte in risposta alla lettera di 11 personalità al quotidiano Avvenire in vista della manifestazione del 5 novembre.

Chiedo scusa se prendo le cose da lontano. È evidente che la pace non è solo questione di logica. È anche un sentimento profondo di conferma e di potenziamento della vita. Al tempo stesso intorno alla pace si “ragiona”. E si ragiona con concetti che sono offerti specialmente dalla riflessione filosofica e sociologica. Tra le categorie di pensiero impiegate per discutere della pace spiccano quelle di natura etica. La coppia di etica della convinzione e di etica della responsabilità è rilevante in molti interventi ed è suscettibile di versioni molteplici. Mi attengo a quella scolpita da Max Weber più di un secolo fa per trattare i dilemmi dell’azione, dal momento che essa campeggia ancora nei dibattiti dell’attualità e a essa si ispirano parecchi proponenti degli appelli per la pace. Così, per Weber come per molti intellettuali odierni, il richiamo alla convinzione sembra riferirsi a un mondo di valori irrinunciabili, che non possono essere subordinati al calcolo dei costi da pagare per sostenerli. Il richiamo alla responsabilità sembra invece riferirsi all’ambito dei mezzi da calcolare, non solo in positivo, nel loro rapporto di efficacia con gli scopi, ma anche in negativo, quando gli scopi che si vogliono perseguire esigono delle rinunce o comportano effetti secondari in sé spiacevoli (per esempio sacrificare un’area verde se si vuole allestire un impianto industriale).

In base alla logica della responsabilità, insomma, occorrono scelte ponderate, a meno di essere, appunto, irresponsabili. Detto diversamente, sulle convinzioni non si tratta, pena il loro annullamento, mentre sugli scopi si può trattare, dal momento che sono nell’ordine del relativo e non dell’assoluto. Si dirà: ma i valori assoluti sono roba d’altri tempi! Ma, paradossalmente, si deve riconoscere che proprio la vicenda bellica russo-ucraina, più di altre che sembrano sfiorarci da lontano, ha fatto riemergere il senso assoluto di alcuni valori. Volendo chiamarli per nome, essi sono i valori della pace e della giustizia.

E qui le cose si fanno complicate. Pace e giustizia, certamente evocate come binomio nella Populorum progressio di Paolo VI, si presentano nella congiuntura attuale come divaricanti. Vale a dire: se si vuole perseguire la pace a tutti i costi o “costi quel che costi”, bisognerebbe chiudere un occhio sulla giustizia, poiché, se la giustizia diventa il valore primo, si chiude la porta alla pace. In concreto: sebbene non manchino coloro che continuano ad attribuire l’ingiustizia a colpe pregresse commesse dai governi e dai leader politici (e non solo) del territorio invaso, quasi tutti pensano ormai  che la giustizia sia stata violata senza motivi sufficienti allorché è stata scatenata un’azione unilaterale di guerra e di invasione. Ciò nonostante, anche da parte di non pochi che dicono di distinguere l’aggressore dall’aggredito si dà valore alla tesi secondo cui battere in modo unilaterale sul tasto della giustizia, o insistere “ciecamente” nella richiesta di riparazione dell’ingiustizia, avrebbe conseguenze sostanzialmente “diaboliche”, poiché scatenerebbe eventi ancora più dirompenti e tali da compromettere le sorti dell’umanità intera. Lo spettro abnorme della bomba nucleare non consentirebbe di aggrapparsi a una improponibile riedizione del principio fiat iustitia pereat mundus.

Allora la domanda: per salvare la pace bisogna mettere tra parentesi la giustizia? Questa domanda sembrerebbe  fare entrare in campo proprio l’etica della responsabilità, dal momento che, depurata della istanza assoluta e controproducente connessa al legame indissolubile e inflessibile con la giustizia, la pace sarebbe trattabile, diventerebbe cioè uno scopo giudiziosamente praticabile. Il discorso si sposterebbe pertanto sulla indicazione dei mezzi efficaci per una pace trattabile. Proprio su questo si sono esercitati gli estensori del documento ribattezzato “rosso-bruno”, suggerendo aree di compromesso e di eventuale intesa.

Che dire? Anzitutto, quando si danno suggerimenti  per un accodo pacifico, o almeno di “cessate il fuoco”, tra contendenti a dir poco recalcitranti, non bisogna fare i conti senza l’oste o, più precisamente, senza gli osti. Vale a dire: chi contratta con chi? E su cosa? Sulla cosa gli estensori del documento si mostrano di una lucidità cartesiana, ricalcando gli accordi di Minsk e arrivando fino alla configurazione di un “ente paritario” che gestisca il patrimonio economico delle regioni contese e alla geometrica evocazione  di una “simmetrica descalation delle sanzioni europee e internazionali e dell’impegno militare russo nella regione”.

Ovviamente, occorrerebbe verificare se questi ingredienti siano sufficienti a rendere appetibile il piatto della contrattazione o se si rischia di disegnare una ingenua ingegneria sub-istituzionale esposta in partenza a un ingarbugliato contenzioso. Sul “chi” del contrattare la prospettiva è davvero nebulosa. Una interlocuzione che abbia “pretese di validità” non può però prescindere dal profilo degli interlocutori e dalla loro disponibilità al riconoscimento di un interesse super partes che è la premessa di una pace “onesta”, per la quale non sarebbero sufficienti intenzioni puramente strumentali. Si sostiene saggiamente: per venire a patti bisogna saper perdere qualcosa. Ora, i due possibili interlocutori si sentono nella condizione di poter perdere solo “qualcosa”? Finora sembrano dell’idea che, trattando, dovrebbero rinunciare all’irrinunciabile: da un lato la missione “imperiale” di bonifica di un emisfero occidentale a  inquinamento  “satanico”, dall’altro una missione “democratica” il cui  adempimento dovrebbe coinvolgere i regimi politici dell’intero Occidente. Su tutto questo pende la spada di Damocle dell’uso dell’arma nucleare.

Sono allora in gioco due valori “assoluti” non negoziabili, tra i quali non si dà quel tertium che sarebbe il negoziato? Si dovrebbe rispondere di sì, e questa contrapposizione toglie il terreno alla mediazione che pure viene ripetutamente tentata da qualche leader, del resto non pienamente raccomandabile. Questo è il punto tragico in cui siamo: aspiriamo a una interlocuzione che manca sia di interlocutori sia di contenuti della interlocuzione. Sic stantibus rebus, quale può essere la cogenza dell’Appello? Senza dubbio può offrire una testimonianza dei buoni sentimenti  di coloro che l’ hanno sottoscritto, ma è del tutto improbabile che esso venga assunto come piattaforma di un accordo per il quale non ci sono interlocutori e per il quale non si dà materia di contrattazione.

Si continua a ripetere come un mantra: l’unica via per uscire dalla guerra è quella della diplomazia. Purtroppo, l’unica diplomazia finora nota è quella che si attribuisce dietro le quinte ai contatti segreti tra Biden (o il suo entourage) e Putin. Si tratta però di una diplomazia che non toglie la guerra, bensì la conferma sotto l’ombrello della non convenienza a usare l’arma nucleare: alterum ledere  equivarrebbe a un seipsum ledere, a meno di non cadere in un irrefrenabile cupio dissolvi. Siamo allora precipitati in un cul de sac. Senz’altro la guerra va fermata e la minaccia della bomba nucleare va disinnescata, ma con ipotesi davvero credibili e praticabili. Sebbene sia amico ed estimatore di alcuni dei firmatari iniziali dell’Appello, ne apprezzo l’intenzione generica ma non ne vedo la plausibilità dei contenuti. Dopo attenta riflessione, ho deciso di non esprimere la mia personale adesione, d’altronde ininfluente.

Accenno infine brevemente a una questione di metodo: al pari di altri, gli estensori del documento vogliono porsi in encomiabile sintonia, oltre che Elon Musk e Henry Kissinger,  con i reiterati e insistenti  appelli di papa Francesco, sebbene si faccia menzione, più prosaicamente, della “Chiesa di Roma” come unica Agenzia mondiale che operi per la pace. Ora, la volontà di corrispondere all’appello della “Chiesa di Roma” o, meglio, del Papa è del tutto condivisibile e bisognerebbe promuovere il più possibile interpretazioni degli eventi e, quindi, azioni in grado di metterlo in pratica. Non si dovrebbe però dimenticare il principio dell’autonomia dei pronunciamenti nel campo delle realtà terrene. È una questione di livelli: il livello profetico dei pronunciamenti di papa Francesco, anche quando si tratta di profezia concreta cioè accompagnata da indicazioni utili all’agire, non dovrebbe essere appiattito sul livello di una elaborazione intellettuale i cui aspetti problematici sembrano maggiori delle certezze fornite. Tradurre la parola profetica del papa in posizioni politicamente efficaci è un compito al quale si spera si possa contribuire con proposte più credibili e meglio ponderate, anche per raggiungere il primo quanto essenziale risultato del “cessate il fuoco”.

Una postilla: per il suo carattere ampiamente comprensivo e il suo livello altamente etico, la richiesta di Europe for Peace al Segretario generale delle Nazioni Unite per convocare una conferenza internazionale per la pace, il disarmo e la cooperazione, a cui possano apportare il loro contributo anche Governi Locali e Organizzazioni Internazionali di società civile, mi sembra costituisca una piattaforma da sottoscrivere pienamente in vista della manifestazione del 5 novembre.


Prof. Francesco Totaro
Presidente del Comitato Scientifico del Centro di Studi Filosofici di Gallarate

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