Cos’è il diritto? E cosa sono i diritti? Siamo ormai abituati a leggere sui quotidiani di continue richieste, a volte imprudenti, per la tutela di vecchi diritti, o per la configurazione di nuovi: dalla sicurezza alla pace, dalla salute al lavoro e alla casa, dal suicidio assistito alla gestazione solidale per altri (Gpa solidale). Alla base dei diritti, però, cosa c’è? Ovvio, il diritto. Rectius: l’attribuzione delle sue caratteristiche giurisdizionali. Su questo elemento dinamico però si è instaurata ormai una gran confusione, che manipola la definizione stessa di stato di diritto, già incerta per natura.
Tutto è diritto, ed è proprio questo il modulo organizzativo di una società: il diritto naturale, le regole. E il diritto costituito? La validità della norma, del resto, è spesso più importante della sua stessa efficacia e un diritto senza procedura è inesistente.
Il filosofo del diritto Pietro Bonfante elaborò nel 1900 una teoria del diritto costituito che ebbe gran successo. Il diritto costituito – afferma Bonfante – può essere “studiato o per l’immediata applicazione come un corpo fisso, definito, come un corpo di leggi da applicare, o nelle mutevoli vicende, nella sua storia ed evoluzione progressiva”. Avremo, dunque, un diritto costituito positivo e un diritto storico. Ed è da qui che partiremo per il nostro viaggio nel diritto, alla ricerca di risposte ai grandi e controversi problemi che la nostra società è chiamata a risolvere.
Il tempo del futuro volge all’incertezza. La definizione di diritto, e dei suoi corollari di declinazione diretta giustizia e diritti (individuali, politici, civili, sociali), dovrebbe aiutarci a solcare il mare tempestoso dell’insicurezza fino a trovare un sicuro approdo nel porto della Legge. Il futuro dovrà poi prendersi la briga di far confrontare il diritto nazionale con altri ordinamenti giuridici ancora in via di definizione: europeo e internazionale. Si dovrà arrivare a una soluzione di sintesi, a una vita in comune. Un nuovo ius commune, per dirla con gli antichi: meglio se globale, e dotato di effettività.
Il declino del diritto però si nota bene nella nostra società Occidentale matura. In un suo recente saggio (Occidente e modernità, 2023), Andrea Graziosi punta il fuoco su un nuovo ed emergente modello organizzativo, arrivando a definirlo: lo Stato Amministrativo. Una realtà per molti versi necessaria, cui i governanti sono tentati di fare sempre più ricorso. Lo Stato amministrativo è figlio diretto delle crisi (pandemica, internazionale, economica, climatica) e si affida al crescente carattere organizzativo dirigista delle società per risolvere i problemi del nostro quotidiano.
Lo Stato Amministrativo, tuttavia, è un fenomeno naturale e risponde ai poteri assunti dalle amministrazioni pubbliche in campi come l’assistenza, la sanità, l’economia, e via dicendo, lasciando agli enti locali una sempre maggiore autonomia decisionale. Un modulo di natura interpretativa, che libera gli enti locali da quanto hanno ricevuto dal Parlamento o dal Governo come direttive per organizzare la macchina amministrativa. È evidente che siamo di fronte a un fenomeno nuovo, modellato sulle crisi in corso, che snatura alcune fondamentali regole del nostro diritto costituzionale di impostazione liberal-democratica.
A questo punto è necessario fare qualche salto indietro nei secoli, senza impegni di natura storica e filologica, per capire cosa sia stato il diritto nella sua funzione creatrice di diritti e di giustizia e nella sua difficile relazione con la legge e l’organizzazione di una società. Ubi societas ibi ius, dicevano gli antichi: un precetto che contiene una visione organica del mondo reale. Ripetiamo: tutto è diritto. La natura di quest’articolo impone, però, all’autore uno stile stringato e intuitivo, lasciando al lettore il piacere finale della scoperta.
Il primo salto è nell’antica Grecia, dove troviamo Omero che, nell’Odissea, osserva come l’elemento principale di una civiltà sia l’aspetto dell’organizzazione giuridica della società: i selvaggi Ciclopi “non hanno leggi” (Odissea, III, v. 244). Da Omero apprendiamo quale fosse la primitiva concezione della legge come thémis, un decreto di carattere sacrale rivelato ai re dagli dei per mezzo di sogni o tramite oracoli. Alla thémis si sostituirà poi la dìke, un’idea del diritto dove predomina la concezione razionale di uguaglianza, in altre parola la giustizia. Manca ancora qualcosa, che aggiunge Esiodo nel poema Le opere e i giorni: l’osservanza della legge e del diritto. Nell’apostrofe a Perse dopo l’apologo L’usignolo e lo sparviero Esiodo esorta a dare ascolto non alla prepotenza ma alla giustizia. Per i prepotenti arriverà il tempo della condanna: la punizione della hybris. Il valore della legge arriva a destinazione con Socrate, che nel Critone stabilisce il dovere di non ricambiare mai ingiustizia con ingiustizia. A Socrate sono attribuite le famose parole “io dico che ciò che è legale (nòminom, conforme alla legge positiva) è giusto (dìkaion)”. Un vero antesignano del Giuspotivismo. Per Platone la giustizia è virtù totale, perfezione dell’anima, la legge è uno strumento etico e il grande filosofo coglie quel tipico carattere del diritto che è l’astrattezza, l’impossibilità di adeguarsi concretamente alla molteplice e divaricante realtà storica. L’astuto Aristotele, invece, accoglie l’elaborazione del passato, la stravolge e pone delle condizioni: l’equità (epiéikeia), per esempio, come correttivo all’astrattezza di Platone. Il diritto cresce, assume negli anni antichi una veste quasi moderna. Per Aristotele, infatti, il valore della legge è tecnico e politico, ma non etico. È questo il periodo della storia in cui nasce la distinzione tra diritto naturale e positivo. Di questo però qui non tratteremo.
La parola diritto nelle varie lingue romanze e teutoniche significa in senso materiale una norma, una direzione (derecho, in spagnolo) per il raggiungimento di una data meta. La parola latina ius non ha questo senso, ma invita a vedere nel diritto una definizione oscura di felicità, salute, salvezza, con senso religioso e con riferimento al fine supremo del diritto. La più antica definizione completa di diritto (ius) la troviamo nelle opere dell’eclettico Cicerone:
Nel trattato De legibus il grande giurista dell’antichità romana spiega l’essenza e l’origine del diritto. Egli afferma che il criterio di scelta tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto è per ogni uomo fissato nella legge naturale, unica, irrevocabile ed eterna, superiore ad ogni umana potenza e scolpita nella coscienza stessa del genere umano. Scrive Cicerone: “Lex est ratio summa insita in natura, quae iubet ea, quae facienda sunt, prohibetque contraria” (La legge – quindi, in questo caso, il diritto – è la norma suprema insita nella natura, la quale ordina quelle cose che si devono fare e proibisce quelle contrarie). Emilio Papiniano, giureconsulto romano fatto decapitare da Caracalla nel secondo secolo d. C., elabora un’altra interessante definizione di diritto: “Lex est commune praeceptum, virorum prudentiam consultum, delictorum quae sponte vel ignorantia contrahuntur coercitio, communis rei publicae sponsio” (La legge è un precetto comune, consiglio della prudenza degli uomini, coercizione dei delitti che si commettono volontariamente o involontariamente, comune patto della Repubblica). Definizione interessante, certo, ma ancora lontana dagli standard di Cicerone. Il filosofo Celso, invece, afferma “Ius est ars boni et aequi” (Il diritto è la scienza del buono e del giusto). Un passo in avanti. San Tommaso definisce il diritto così: “Commune praceptum honestum ad bonum reipublicae ab eo, qui societatis curam habet, promulgam” (un precetto conforme a onestà e virtù, promulgato per il bene dello Stato da chi ha cura della società). Una definizione che somiglia molto a quella di Papiniano, sennonché per San Tommaso il legislatore è il principe, non il popolo come per Papiniano, che, infatti, come abbiamo ricordato, fu decapitato.
Dobbiamo un po’ correre, quindi saltiamo in avanti fino al Sommo Dante, che artisticamente definisce il diritto come “Ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio quae servata servat societatem, corrupta corrumpit” (Il diritto è un rapporto proporzionale, sia reale sia personale, dell’uomo con l’altro uomo, e tale rapporto, finché vien conservato, conserva la società umana, quando invece è violato, la porta alla rovina). La famosa citazione è tratta dall’opera politica di Dante, il De Monarchia e contiene un vizio: non si riesce a distinguere il diritto dalle altre norme sociali, manca qualcosa che sia riconducibile a una fonte giuridica. Tuttavia, è Dante e questo basta.
Corriamo ancora più veloci, a rotta di collo. Per Montesquieu il diritto “è l’espressione dei rapporti reali e necessari delle cose”. Per Giambattista Vico “Il diritto è la misura delle utilità”. E per Leibniz “Ius est quod societatem ratione perficit” (Il diritto è stabilito per il perfezionamento della società). Immanuel Kant definisce il diritto meravigliosamente come “Il complesso delle norme per cui l’arbitrio di ciascuno può coesistere con l’arbitrio di tutti secondo una legge generale di libertà”. Una visione razionale quella di Kant, cui Hegel contrappone una visione ideale per la quale il diritto è, invece, un insieme di regole che la società si dà per impedire la conflittualità delle volontà.
Voglio terminare questa parzialissima, e divertita, carrellata di definizioni con alcuni autori contemporanei. Per Santi Romano, il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura e posizione della stessa società in cui si svolge, e che esso si costituisce come ente per sé stante (Teoria dell’Ordinamento Giuridico). Per Hans Kelsen, invece, il diritto è costituito solo ed esclusivamente dalle norme positive e valide dell’ordinamento giuridico, qualsiasi precetto esse contengano. Non a caso la sua teoria è chiamata Dottrina Pura del Diritto, come una delle sue opere più famose. Infine, per Natalino Irti, teorico del nichilismo giuridico ontologico, esiste il diritto senza verità: ciascuno sceglie il proprio diritto, e così costituisce la propria vita giuridica; ciascuno risponde dentro di sé alla domanda – qual è il mio posto nel mondo del diritto? Bella domanda, che lasceremo senza una precisa risposta, sollecitando il lettore a formulare una propria ipotesi di vita dentro il mondo del diritto.
La corsa alle definizioni di diritto, nel suo divenire, ci offre la possibilità di una successiva riflessione. Il diritto è materia viva, si muove e fluidifica la realtà dei fatti. Di fronte a noi abbiamo un mondo che sta cambiando: la globalizzazione (giuridica) che abbiamo conosciuto dalla conclusione della guerra fredda a oggi non sarà più quella di domani. Che cosa sarà, è difficile prevederlo. Conosciamo però, i numerosi problemi da affrontare: la crisi climatica, un nuovo ordine internazionale, le emergenze sanitarie e quella demografica, che modifica le necessità dello sviluppo secondo le latitudini del mutevole progresso. Parola importante, quest’ultima, che si connette teoricamente al benessere globale, ai miglioramenti sociali e alle invenzioni in tutti i campi dello scibile umano. Un concetto inventato dall’uomo, non dalla natura.
Progresso è un concetto ambiguo; elaborato per primo da uno degli ideologi della Rivoluzione francese, il marchese di Condorcet, che esternò la teoria nel suo Quadro storico dei progressi dello spirito umano, il libro con cui si chiude quel periodo storico. Condorcet subito dopo la stesura del saggio si suicidò. Il progresso dell’umanità si presenta come indefinito o comunque destinato a coincidere con “la durata del pianeta su cui la natura ci ha collocati”. Per il filosofo francese si basava su un’uguaglianza esterna tra gli Stati e su un’uguaglianza interna tra gli uomini.
Se realizzassimo un’idea di mondo nuovo attraverso la vita di un condominio, ci troveremmo a osservare le diversità di vita e gli egoismi tipici di questa società micro-urbana. Senza regole comuni può capitare di vedere andare in rovina i beni essenziali del condominio semplicemente per incuria e degrado dovuti al prevalere di egoismi tra i singoli proprietari degli immobili. Ecco, il mondo oggi è come un immenso condominio. È forse questo il progresso? Il diritto nazionale sta al diritto internazionale un po’ come il diritto dei singoli proprietari sta alle regole comuni di un condominio. Dovrà perciò dovrà trovare una dimensione nuova per esporsi a un nuovo mondo o, per dirla come ai tempi del secolo dei lumi, un Mondo Nuovo. Il diritto nasce, infatti, come elemento dinamico di un ordinamento giuridico sempre in movimento, che muta di giorno in giorno producendo nuovi obblighi e obbligazioni. Ed è anche questa, una risposta allo Stato Amministrativo da cui siamo partiti, e alla sua Governance territoriale: per ribaltarne l’assioma costitutivo che assegna la priorità ai diritti collettivi di specifici gruppi e non all’uguaglianza di fronte alla legge.
Quando il diritto non è più erogato da fonti precise, e i Parlamenti si svuotano dai poteri della Norma Suprema in nome dello Stato amministrativo, i diritti retrocedono, anche se in apparenza sembrano rafforzarsi, continuamente evocati come sono al centro della scena. Il trionfo apparente dell’ideologia dei diritti, infatti, porta solo una sembianza di legalità (principio di legalità), conducendo a un arretramento il diritto, come insieme di regole organizzative di una società matura. La lentezza della giustizia e una certa rarefazione delle tutele giurisdizionali sono il corollario di questa vittoria dell’amministrativo sul giuridico. Il resto lo fa la Governance, che, come ha osservato Alain Denault nel suo famoso saggio è una sottrazione di sovranità e un management totalitario (Governance. Il management totalitario, 2018).
Non è la forma di governo della democrazia a essere entrata in crisi nel secolo scorso, ma il suo vestito più consono: la liberal-democrazia. Esistono, dunque, più Occidenti, e il concetto di nazione ha occupato il posto che aveva il popolo, che a sua volta sostituì nel Novecento la classe: lotta di popolo, al posto di lotta di classe (in verità, anche il liberale Isaiah Berlin lo affermava). Oggi, invece, è la “nazione” a offrire una nuova sponda identitaria. E il tempo è quello ostile della Policrisi, che ci consegna lo Stato Amministrativo e le sue grandi e piccole controversie. La tesi della Policrisi, secondo lo storico dell’economia Adam Tooze, è che ci troviamo in un momento in cui le grandi crisi globali “interagiscono tra loro in maniera tale che l’insieme delle parti è più opprimente della loro semplice somma”. Ciascuna crisi, secondo Tooze, diventa un fattore di un’altra crisi, e contribuisce ad amplificarla.
L’ipertrofica predisposizione alla decretazione d’urgenza; l’incapacità di affrontare la crisi climatica e gli eventi catastrofici che si porta dietro (le ricostruzioni, per esempio); la relazione tra sovranità nazionali e sovranazionali di carattere intergovernativo, come nel caso dei rapporti con l’Unione europea per la conversione dei fondi del Pnrr in progetti di riforma adeguati a decifrare uno sviluppo che nessuno ha capito cosa sia; la relazione con la NATO nel tempo di una condivisione dei rischi e degli oneri economici di difficile presa nell’opinione pubblica nazionale; le tutele dei diritti umani nell’appellarsi alla Corte Europea del Diritti dell’Uomo (CEDU) attraverso ricorsi della persona contro lo Stato e non contro responsabilità individuali. Controversie che paiono distanti tra loro ma che, invece, evidenziano le carenze nelle legislazioni nazionali e l’avanzamento della Governance su ogni singola questione. Per non parlare di uno dei grandi problemi del vivere contemporaneo: la trasformazione della città, che procede spedita nel vuoto di regole comuni in grado di affrontare la novità. Nel caso specifico degli affitti brevi turistici il conflitto è chiaro. Un contrasto tra due interpretazioni del diritto di proprietà che introduce conflitti di natura giuridica. Da una parte una proprietà che rivendica la propria assoluta libertà di disporre del proprio bene, dall’altra proprietà altrettanto libere e intere comunità cittadine che della libertà della prima subiscono gli effetti negativi: nei bilanci, nella vivibilità, nel funzionamento dei servizi dei condomini e della città stessa. La prima si fa forte del richiamo al principio di Locke della proprietà come diritto di natura; l’altra chiede sia rispettato il principio kantiano della libertà che finisce dove incomincia un’altra libertà. Su questo conflitto non è però oggi la legge a decidere, ma la Governance turistica, lo Stato amministrativo. E forse un giudice civile.
Del resto, la storia del diritto è pur sempre una storia intrisa di cose “eterogenee”, seppure non al punto che si possa capire l’una senza aver conosciuto l’altra. In astratto, il problema logico della definizione del diritto non ha niente a che fare con il problema politico della sovranità del diritto stesso. Una sovranità elementare, lentamente sempre meno nazionale e sempre più sovranazionale, legata però a relazioni di preferenza. Nel distinguere in tal modo la scienza giuridica dalla politica, non si ha l’obbligo di prendere alcuna posizione contro la politica come tale. Vige il principio di autonomia per entrambi. Il diritto è validità della norma, non efficacia, e in questa dimensione si nutre di neutralismo e di sviluppo armonico con i fatti. Il futuro è nel confronto tra diritto nazionale e internazionale, muovendo dal primo per dare la possibilità di avviare il secondo a vita lunga. Le alchimie sono diverse, i principi ispiratori dissimili, gli stessi sistemi di osservanza incompatibili: i sistemi di Civili law e di Common law e quelli misti. Il diritto però è uno solo. La strada è lunga. L’analisi qui esposta non è altro che un’applicazione dei concetti fondamentali dell’evoluzionismo giuridico: adattamento all’ambiente, selezione, ereditarietà – nel nostro caso eredità giuridica, come abbiamo visto. Non rimane altro, quindi, che augurare lunga vita al diritto!
In foto il marchese di Condorcet