Parigi – La trilogia mediorientale di Ezra Nahmad.
Ho conosciuto Ezra Nahmad quando viveva e studiava a Firenze, dove si laureò in storia dell’arte con Alessandro Parronchi. Durante quel periodo Nahmad partecipò attivamente alla vita artistica fiorentina che allora si svolgeva attorno a Zona (Zona non profit art space) e lavorò per qualche anno presso l’Archivio Fotografico Scala. Negli anni successivi Ezra Nahmad tornò a vivere a Parigi, città dov’era cresciuto.
I lettori di StampToscana hanno giù avuto modo di leggere di te in occasione di tue mostre sia a Parigi che a Firenze. Le foto che hai esposto negli ultimi anni fanno parte di un progetto unico su Medio Oriente e Israele, puoi parlarcene?
“Volevo tradurre in fotografia il mio rapporto personale con il Medio Oriente. Ho iniziato con un primo libro, “Without/Sans“, poi ho proseguito con altri due volumi. Tutti e tre contengono una dimensione autobiografica e per certi versi intima. Allo stesso tempo volevo fare un documento che facesse vedere Israele, come lo vedevo io. La dimensione personale mi è apparsa come una specie di antidoto contro la preminenza delle tanti confusioni che riguardano questa parte del mondo. Questo progetto, che risulta da una serie di viaggi tra Francia e Israele, deve anche essere visto nel contesto dei rapporti tra Europa e Medio Oriente. Voglio dire che questi libri rendono conto di movimenti pendolari tra due regioni, e vogliono essere una testimonianza dello scambio reciproco di sguardi.
La maggior parte delle fotografie sono state prodotte durante i numerosi spostamenti fatti nel corso di questi ultimi anni, quattro o cinque viaggi all’anno. Ogni volta per una quindicina di giorni. Il rapporto pendolare con il Medio Oriente è per me consuetudinario, visto che sono nato in Israele ma vivo a Parigi da quando ero piccolo. Ci sono nei miei libri anche immagini riprese da album fotografici di famiglia. Questo lavoro lungo ha consosciuto quindi tre fasi, tre tempi con atmosfere diverse, come tre movimenti musicali.”
Quali zone hai visitato?
“Israele è un paese molto piccolo, le fotografie sono state fatte un po’ da per tutto, non si tratta di un lavoro concentrato in una zona piuttosto che un’altra. Sono stato a Gerusalemme, Tel Aviv, nel sud, nel nord fino al confine con la Siria. Nei territori palestinesi occupati, anche se ho dato la preferenza alla parte che conosco meglio, quella proprio israeliana. E molto facile fotografare in Israele, per chi è pratico della lingua e cultura locale. Ho tanti amici in Israele, e anche le nostre conversazioni hanno ampiamente nutrito il mio lavoro.”
Se tu dovessi descrivere in due parole i tre volumi, cosa diresti, quale differenze evidenzieresti?
“Il primo volume descrive un cammino lungo la frontiera tra Israele e i territori palestinesi, ma non si tratta di un’ennesima descrizione del muro. E’ piuttosto il tentativo di rappresentare lo stato di confusione mentale et sensoriale che si crea in questi luoghi. Bisogna ricordarsi che Isreale è un paese frontiera, non solo simbolicamente, dato che è un piccolo paese in cui la frontiera è sempre vicina e si sposta in continuazione. Tuttavia, gli Israeliani rimuovono in continuazione questo fatto, non ne vogliono sapere. Va anche ricordato che, fino ad oggi, Israele non ha frontiere riconosciute o accettate dalle organizzazioni internazionali. Questo contibuisce anche alla confusione territoriale e geografica. La maggior parte degli Israeliani non sanno se Nazareth, che fa parte dello stato israeliano fin dalla sua nascita, si trova nei territori occupati oppure all’interno della cosiddetta linea verde.
Il mio primo volume, “Without/Sans“ è nutrito dall’incertezza e dallo stress che nascono quando il varco delle frontiere diventa un rischio sempre imminente, quando questo pericolo elettrizza il paesaggio e gli spostamenti. Dallo sregolamento dei sensi che sorge allora, che produce precarietà e sospensione. “Without/Sans” è composto per la maggior parte di paesaggi in bilico fra serenità e tensione, sonno e tumulto.”
E’ tutto frontiere?
“Israele ha messo in atto tante frontiere diverse che non coincidono, giuridiche, militari e politiche. Queste linee si accavallano, s’incrociano in tanti modi diversi, producendo una complessità legale inverosimile, una specie di incubo kafkaiano. Gli accordi con il cosiddetto stato palestinese, nati dopo Oslo, hanno introdotto pure essi tre tipi di territori, con tre sistemi diversi di amministrazione e di autonomia. Non credo esista al mondo un altro territorio così piccolo, con tanta complessità giuridico-amministrativa.”
Ma perché la chiami confusione?
“Non sai mai dove ti trovi esattamente, se sei da questa o “dall’altra parte”, e anche se tu lo sapessi, non avresti nessuna idea della legge in vigore, di ciò che è concesso o vietato. C’è un imbroglio giuridico ovunque, che condiziona i comportamenti e la vita quotidiana, che produce un sentimento di insicurezza permanente. In Israele c’è sempre stato questo sentimento di essere in pericolo perché “l’altra parte” non è lontana, “l’altra parte” é sempre dietro l’angolo. Va detto chiaramente: il disordine nasce non solo dal conflitto armato, ma dallo sviluppo machiavellico di un sisterma giuridico amministrativo, dalla sua persistenza.”
Si tratta di qualcosa che in Europa conosciamo meno.
“Gli stati europei hanno confini riconosciuti, leggi proprie. L’avvento della comunità europea ha un po’ cambiato la situazione, ma lo scompiglio che ne deriva non ha nulla a che fare con la situazione israeliana, che produce continuamente leggi di eccezione, sacche di regolamenti particolari, diritti individuali sempre piu differenziati.”
E per quanto riguarda il secondo libro ?
“Sounds Hell“, questo il titolo del secondo volume, racconta come un clima di guerra e terrorismo contamina la vita quotdiana, gesti, emozioni, pensieri. Dieci anni fa l’Europa faceva fatica ad immaginare un tale fenomeno, oggi col dilagare del terrore in Europa queste cose ci sono più comprensibili. “Sounds Hell” è assai cupo, lo riconosco: nutrito da immagini di militarizzazione della società, da situazioni che ricordano una guerra civile. Vi si vedono soldati, paesaggi notturni rischiarati da fari … E’ un libro nero perché c’è l’idea di questo veleno che sciupa la vita, te la porta via. Ti porta via il senso di leggerezza, la poesia della vita, il senso del piacere.”
Anche noi, in Europa, camminiamo oramai tra pattuglie di vigilanza armate, una presenza se vuoi rassicurante, ma che ci ricorda che viviamo in uno stato di allerta. Ci stiamo già abituando anche a questo. Ma forse quello che sta succedendo in Europa è diverso da ciò di cui parli, dal clima di guerra e terrorismo in Israele.
“No, non è diverso, è la stessa cosa, solo che in Israele è una storia vecchia, diventata consuetudine, si tratta proprio di questo, di come ci si possa abituare, e nonostante tutto la vita continua, si continua a mangiare, a uscire, a ballare, ad andare in giro, eppure c’é sempre questa presenza. “Sounds Hell” descrive gli effetti di questa tensione particolare nella vita quotidiana e nel paesaggio, e come questo fenomeno s’insinua nell’abitudine, l’idea che c’è l’obbligo di andare comunque avanti. Quindi è la stessa logica in Europa e in Medio Oriente, solo che in Medio Oriente la cosa è più radicale, e questa differenza d’intensità conta molto.
Il terzo libro poi, che si chiama “Leave” in inglese (Partire) nasce intorno alla circolazione, cioè, come la nostra esperienza di circolazione si trasforma con gli anni. Circolazione di persone, merci, idee, culture. Il Medio Oriente rimane una regione cosmopolita di movimenti regionali intensi, eppure negli ultimi anni si è dotato di regole communitarie, religiose, identitarie, che hanno rovesciato i movimenti, i flussi e gli scambi.Questi slittamenti continui, impellenti, sono una sfida. Transformano le abitudini, la fisionomia sociale dell’ambiente quotidiano. La sfida più grande oggi, non solo in Medio Oriente, ma da per tutto, è il sorgere di una molteplicità di diritti di circlazione, molto diversi. Ognuno di noi porta con se un biglietto, il cui prezzo e i cui diritti allegati non sono identici a quelli del vicino. “Leave”ritrae tante figure, ognuna con un esperienza diversa della libertà, dell’esilio, del viaggio. Sostanzialmente tre tipi, l’Israeliano, che non può circolare nel Medio Oriente e che deve quasi sempre usare la stessa porta, se vuol uscire, cioè l’aeroporto di Ben Gurion. Questo passaggio stretto, è molto significativo. C’è poi la figura del Palestinese, costretto tante volte di abbandonare il suo posto, ma i cui percorsi sono ostacolati in tanti modi assurdi. Ci son poi i rifugiati, eritrei, sudanesi oppure i lavoratori filippini. Lì ho consosciuto e fotografato anche lavoratori cinesi che vengono dai confini con la Russia. Altri percorsi, altri movimenti, altri sentimenti di sradicamento. “Leave” descrive Israele come una specie di porto di mare, un paese in cui c’è gente che parte, gente che arriva, che passa.”
I palestinesi sono bloccati dentro Israele?
“In un certo senso sono tutti quanti bloccati, molto più di noi Europei. Ma i Palestinesi sono sottoposti al regime di blocco più brutale e assurdo. Sono bloccati perché, come dicevo, il paese è frammentato, con tanti posti di blocco, frontiere. Ti faccio un esempio: è come se per arrivare a due chilometri da qui tu dovessi fare un giro di trenta chilometri, impiegandoci ore, una giornata. Tutto questo perché è necessario varcare numerosi punti di controllo. Si tratta quindi di una circolazione impedita appositamente per limitare gli spostamenti dei palestinesi, persone esiliate nel proprio paese. Accanto a loro ci sono gli israeliani che, stufi della situazione di tensione e di guerra, vorrebbero partire, muoversi ma non possono; oppure che, pur volendo restare, si sentono esiliati.
In “Leave” volevo anche mettere a confronto il presente con il periodo dell’Impero ottomano, quando il Medio Oriente era una zona totalmente aperta e la gente poteva circolare liberamente. Allora c’erano treni che partivano da Damasco e andavano al Cairo attraversando la Palestina, tranquillamente. Oggi tutto questo non esiste più. Quella cultura cosmopolita coloniale, quella dei miei nonni e dei miei genitori quando erano giovani, è crollata dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvento delle indipendenze e con il dilagare dei nazionalismi che hanno portato una chiusura delle frontiere.”
Quindi le frontiere costituiscono davvero un grosso problema.
“Non credo che la frontiera in sè sia una catastrofe, è il modo di regolarla che può condurre ad estremi molto sgradevoli. La partizione del Medio Oriente, anche tra paesi arabi, è rimasta molto complicata. Vi si osserva una vecchia regola di governo, dividere per salvaguardare il potere. In un certo senso, più un territorio è ricco di culture, frammentato e cosmopolita, più rimane fragile e propenso ad alimentare guerre comunitarie. Il Vecchio Testamento è già pieno di esempi di questo genere. Questa complessità, come la sua profusione culturale sfuggono a noi Europei. La nostra psiche coloniale esagera la povertà e l’arretratezza del Medio Oriente, a scapito delle sue numerose aperture o della sua modernità. La mia trilogia voleva anche rendere conto proprio di queste proiezioni reciproche tra Europa – Medio Oriente. Volevo anche farlo nel contesto del recente avvicinamento tra Europa e Medio Oriente, complicato, pieno di proiezioni negative.”
Come a dire che quello che succede lì può succedere anche qui, il Medio Oriente è forse lo specchio di un possibile futuro europeo?
“Ma non solo per il terrorismo e la barbarie, anche per le capacità d’invenzione, l’immaginazione pure nelle condizioni più terribili, anche per dire quanto il rettaggio culturale medio orientale sia ricco…”
La tendenza a chiudere sta tornando a livello europeo e nel mondo.
“Ritengo che il Medio Oriente sia in un certo senso un “laboratorio del peggio”, di un futuro senza democrazia, la fucina di una società che privilegia l’economia ed il consumo a scapito dei diritti umani. Dico laboratorio come situazione ricca di ipotesi per il futuro, come luogo dove si fabbricano pratiche con sistemi sofisticati, moderni, avanzati. Vuol dire che la brutalità mediorentale non è solo arretratezza, ma invenzione, diabolica ma pure invenzione avanzata. L’idea è di dire: “se vuoi capire dove il mondo potrebbe andare, allora vai a vedere cosa accade in Medio Oriente”. Dico anche, a modo mio, pur essendo consapevole che questa dimensione non traspare abbastanza dalle mie foto, che su questo sfondo incerto, la vita continua e che, nonostante tutto, possiamo e dobbiamo fabbricarci delle esperienze positive, una felicità improvvisata.”
Un’ultima cosa, pensi che questo tuo progetto sia concluso?
“Con l’uscita dell’ultimo volume questo progetto è finito. Ma credo che la mia idea di osservare o descrivere la vita nelle condizioni più assurde o brutali, non sia esaurita. Mi pare sia une specie di ossessione. I miei lavori si svolgono sul tra disastro e felicità, orrore e godimento della bellezza del mondo.”
Con “ossessione” intendi dire che l’arte è compulsiva?
“Sì, nasce da comportamenti ossessivi. Se guardi i lavori di un artista c’è sempre un tema che ricorre, immagini, situazioni che si ripresentano, quindi posso dire che tutti questi temi fanno parte di me. Comunque questo particolare lavoro è concluso, finito. Adesso passo ad altro, farò altre cose, certo non mi metto a fotografare tulipani, anche se i fiori e la natura mi sono molto cari!”
Questo lavoro rispondeva a un tuo bisogno narrativo? Hai altri progetti in mente?
“Più che un bisogno era il desiderio di raccontare quella che è la mia storia, la mia vita, ogni artista racconta del mondo attraverso di sé. Quindi, anche se questo progetto su Israele è stato portato a termine non vuol dire che non possa essere ripreso, sempre sulla base dell’osservazione della realtà.
In questo momento lavoro sulla rivoluzione cinese. Riutilizzo piani fissi tratti da film, documentari o film di finzione che si possono vedere su Internet. Sono per la maggior parte visi colti in piani ravvicinati. Anche con questa storia sprofondo in un periodo terribile, dove le speranze e le utopie si rovesciano per condurre ad una catastrofe. Questo lavoro, la materia prima non è mia, mi permette di cogliere sguardi di esseri umani sorpresi in movimenti storici eroici o catastrofici, e sguardi di noi oggi che osserviamo sempre di più immagini, rispecchiandoci in modo complesso.”
Puoi dire anche qualcosa sugli aspetti strettamente fotografici?
“Tanto per cominciare, la mia trilogia israeliana è nata per essere prima e innanzitutto un progetto editoriale. Un libro non nasce come un progetto di mostra. L’impaginazione delle foto, se la si considera non solo come una successione di belle immagini, è un’avventura in sé. La mia trilogia appare immediatamente come un progetto editoriale di combinazione e di successione di piani che si intrecciano. Lavoro le mie impaginazioni con la doppia pagina, ovvero creo uno spazio, utilizzando la pagina di sinistra e quella di destra, dove faccio entrare varie immagini in una composizione, con un senso di dissimmetria, di accozzamento, di scontro. Spesso le immagini non hanno margini, sono piene pagine.
Le mie pagine sono reali però immergono in uno spazio virtuale, diversamente dell’impaginazione classica che riprende l’idea della foto con cornice: una foto per pagina, inserita al centro, circondata da un margine bianco, che suggerisce l’immagine della cornice, come se fosse esposta in un museo. Invece nello spazio virtuale l’immagine passa da una parte all’altra, creando un senso di movimento: “sta qui, ma potrebbe spostarsi altrove”, con è un design dinamico. Le immagini funzionano in gruppo, non funzionano isolate l’una dall’altra, lavorano per accostamento, come un cluster, come una rete di immagini.
Parto dall’idea che la fotografia è un medium parassitario, si ficca dappertutto, si ficca nel telefono, nel computer, nelle riviste, e questo gli conferisce una grande agilità, un’esistenza multipla, molto diversa in ogni situazione. Oggi non si sa più quale possa essere il supporto finale dell’immagine. I libri di foto che piazzano la foto in mezzo alla pagina ti danno l’idea che l’opera è compiuta e ferma per l’eternità, le mie foto invece sono sempre in movimento, non esiste un inizio e una fine, quindi la mia estetica è quella, essenzialmente virtuale, digitale.”
Mentre parlavi di questa caratteristica impaginazione mi veniva da pensare che in questa perdita di confini, c’è una stretta connessione con quanto raccontavi a proposito della circolazione in Israele.
“Le immagini viaggiano continuamente, non stanno ferme, hanno sempre qualcosa di fragile, un’esistenza molto precaria, un aspetto che dà noia a tante persone, spesso refrattarie al mio lavoro perché hanno bisogno di avere un’immagine con la “i” maiuscola, compiuta, pulita, cosa che le mie immagini non sono ne in senso estetico, ne in senso formale, ne in senso editoriale, ne in senso artistico.
Françoise Morin, la mia gallerista, a volte ci perde la testa, perché al momento di montare la mostra c’è sempre un’immagine in più che non era prevista o che si è spostata. L’allestimento della mostra é per me la parte più interessante dell’esposizione, perché é la parte fragile. Nel mio caso non si tratta di andare in laboratorio a stampare e poi scegliere la più bella immagine, la più compiuta: quello che mi interessa è lavorare sul rapporto tra l’immagine e l’ambiente, lo spazio del libro, della galleria, i rapporti che si intercciano tra le immagini.
L’adattabilità dell’immagine fotografica, la sua estrema plasticità, fanno si chei professionisti stessi non sono più d’accordo su cosa sia una stampa digitale e una stampa fotografica tradizionale. Non c’è consenso su cosa sia una stampa originale, non ci sono codici stabiliti su come si ferma la foto. Questa ambiguità di un medium che non si riesce a fissare, ne in senso verbale/concettuale, ne in senso tecnico materico, scaturisce dal suo sviluppo tecnologico accellerato e permanente. Ecco, questo è proprio quello che mi interessa, questa follia della foto, questa vertigine che ti prende davanti al digitale, anche se io non godo nel produrre grandi quantità di immagini per farle circolare ovunque. A me interessa capire in modo chiaro come funziona questa cosa. Ecco questo è quanto relativamente alla mia tecnica.”
Utilizzi vari strumenti, la fotocamera digitale, ma anche lo scanner, la fotocopiatrice e altro.
“Sì, uso anche foto scattate con lo smartphone, perché ogni dispositivo ha una sua estetica, un suo mondo, una sua ideologia. Ogni medium, il computer, il telefono, lo scanner, il libro ha una sua bellezza, musica, atmosfera, ricchezza visuale. L’accozzamento di queste tessiture diverse mi piace.
Ma non ti accontenti delle immagini digitali.
Secondo me la fotografia non può esistere solo come immagine virtuale fatta per lo schermo, almeno non per me. Io ho bisogno di stampare l’immagine, vedere come risulta su carta, di prendere tempo per osservarla: le immagini digitali sullo schermo si osservano velocemente, per pochi secondi. Si scorre il dito sull’immagine e si passa subito a quella successiva … Percepisci l’immagine ma non la osservi veramente. La foto invece è fatta di particolari, di tanti dettagli, e la stampa su carta permette di studiarli meglio.”
Quindi anche l’ipotesi di stampare un libro in formato elettronico non ti interesserebbe minimamente?
“No, potrebbe interessarmi, ma non è il mio mondo. Sai non si può fare tutto nella vita, sono un artista con un passato di pittore, mi piace il computer ma ancora di più il lavoro manuale, mi piaciono la carta, l’inchiostro, i colori, la matita ho bisogno del tocco, della sensazione tattile, della carta, del suo odore, ho bisogno della sensualità dell’inchiostro, perché per me la vita è anche una storia di tocco, non solo di vista, toccare le cose, per quanto sia un tocco molto sottile, fragile.”
Cosa pensi a proposito della preservazione nel tempo delle opere?
“Non credo che la conservazione in formato digitale sia il modo più convincente per preservare un’opera. Vedi che banche dati intere possono essere derubate, distrutte. Un virus può distruggerei qualsiasi file, il computer, il server. Invece il libro sta in una biblioteca, o in più biblioteche.
Poi, dipende anche da che idea hai della diffusione dei tuoi lavori: penso che debbano andare dove possono andare, dove devono andare. Io sono assolutamente favorevole al libro, infatti il prossimo oggetto che farò probabilmente sarà un libro in esemplare unico.”
Un libro d’artista?
“Sì, però più grande del solito libro, composto da stampe uniche di grandi dimensioni, forse 50×70 cm. Volumi unici, in unica copia: la mia idea è di fare una serie di libri in unica copia, concepiti come singole opere.”
Quindi visibilità e diffusione non sono il tuo problema, non è questo che ti interessa
“Penso che è molto importante coltivare le cose in scala umana. La diffusione digitale si trova ancora, mi pare, in uno stato di caos primitivo. In fin dei conti la dimensione digitale mi interessa, ma un po’ mi preoccupa, perché non é controllabile. Ci troviamo ancora nella fase feudale in cui questo spazio è controllato da poche persone e tu non hai assolutamente la padronanza di questo universo. Ti sembra di essere autonomo, ma in realtà ti immergi in una macchina che ti schiaccia completamente, che sfugge al tuo controllo. Questa fase primitiva del digitale mi sembra rozza, tecnologicamente sofisticata ma culturalmente e umanamente molto povera, con tante potenzialità, ma di fatto molto povera. Io continuo a preferire la pittura e il libro, forme espressive in cui riconosco un accumulo di energie, pensieri, esperienze, sentimenti. Quando in un museo ti trovi davanti ad una tela percepisci un’energia che invece non c’é davanti ad uno schermo elettronico, quindi gli schermi possono essere belli e interessanti, ma non trasmettono quella forza che senti in presenza di una tela di Rembrandt. Non esiste uno schermo che ti procura lo stesso tipo di impatto, non esiste. Bene, ora andiamo a mangiare qualcosa, dai.”
“Without/Sans”, “Sounds Hell” e “Leave” sono editi presso Peperoni Books, Berlino.
http://www.peperoni-books.de/without_sans.html?&L=2
http://peperoni-books.de/sounds_hell_eng.html
http://peperoni-books.de/leave.html