Sono decine e decine, della zona tra Correggio e il modenese, ma anche Novellara e Scandiano e verso la val d’Enza per esempio Praticello di Gattatico; sono guaritrici vecchia maniera, ovvero con strumenti che nulla hanno a che fare con la medicina ufficiale e le sue tecniche e le sue medicine. L’antropologa reggiana Antonella Bartolucci le chiama “streghe buone” nel libro in cui raccoglie anni di lavoro e ricerca sul territorio alla scoperta di ciò che resta di un’antichissima usanza, specie al femminile, a metà strada tra la tradizione e la superstizione (laddove le dimensioni a volte sono difficilmente distinguibili): aiutare le persone in difficoltà con formule e “pozioni”.
Hanno un’età che va dai 39 ai 60 anni, quindi non ultraottantenni ed hanno imparato il mestiere delle “fattucchiere” da parenti più anziani o dalle “megere” dei loro paesi d’origine. Nella stragrande maggioranza dei casi non vogliono denaro o solo un’offerta libera. Preferiscono l’accensione di candele in chiesa o preghiere o addirittura generi alimentari, dimostrando un legame inscindibile con la religione.
Tolgono problemi fisici, o almeno cercano di agire in questo senso, come infiammazioni e scottature, herpes, porri e verruche ma anche fuoco di S.Antonio e storte e dolori muscolari in genere. Ma anche il malocchio e le paure in genere. Tutto questo nel reggiano, in pieno XXI secolo.
Le tecniche di guarigione tradizionale, hanno per lo più le proprie origini nella credenza del potere arcano dei simboli, dei gesti, delle immagini, delle parole. All’interno delle pratiche di guarigione evidenziate nella ricerca ventennale dell’antropologa Antonella Bartolucci, si individua immediatamente un nucleo fondamentale di cure, raggruppabili sotto il termine di segnatura e costituiscono un nucleo fondamentale attorno al quale si accomunano la maggior parte delle cure delle patologie o degli infortuni di cui si occupano i guaritori delle aree prese in esame. Le patologie per le quali il guaritore interviene a tutt’oggi sono: il «fuoco di Sant’Antonio», le storte, la «verminosi» e «il colpo della strega».
Descrivere il guaritore tradizionale, cioè quella figura che si assume la responsabilità di curare in modo alternativo alla medicina ufficiale, significa, a tutt’oggi, parlare per lo più di guaritrici, quindi di donne. A livello numerico è ciò che emerge da tutti i vari aggiornamenti della ricerca. Per la donna, dare cibo e dare cure sono azioni interconnesse.
Dalle prime interviste degli anni 1992-1995, fatte nel piccolo territorio di San Martino in Rio, Correggio e frazioni circostanti, il dato emergente più importante, come già detto, è la prevalenza femminile: in un totale di 16 intervistati 14 sono donne, quasi tutte specialiste in più di una pratica di guarigione. Gli ultimi aggiornamenti, con i dati raccolti negli anni dal 2013 al 2016, in Emilia Romagna, su un totale di 21 guaritori contattati e intervistati, 18 sono donne. Nelle interviste aggiornate dal 2013 al 2016, nella totalità della regione Emilia Romagna, 21 guaritori sono stati contattati direttamente; di altrettanti ne conosciamo l’esistenza, ma è stato impossibile avere un rapporto diretto. Il retaggio culturale spesso rimane contadino, ma l’estrazione sociale e la scolarità sono cambiate.
I pazienti invece sono anch’essi di varia estrazione sociale, quindi anche coloro che possono fruire della medicina ufficiale, spesso richiedono cure alternative.