Firenze – Scusate la franchezza , ma questa volta con Finale a Sorpresa / Official Competition presentato in concorso a Venezia 2021, il ben accreditato duo argentino Mariano Cohn- Gaston Duprat, a mio opinabilissimo parere, ha toppato, soprattutto considerando il dispiegamento di mezzi. Anzi causa questo.
Metti una sera in scena tre grandi star ispaniche (anzi quattro); metti una sera pure questa affiatatissima coppia a dirigere e sceneggiare (e a co-sceneggiare il fratello minore Andrè Duprat, che è pure il direttore delle Belle Arti di Baires); metti che la confezione per mezzi e ambizioni stilistiche – con location elegantissime, campi lunghi e medi , e con profondità su particolari da installazioni video art e/o Biennale di Venezia- è enormemente più consistente rispetto ai risicati budget cui i due ( anzi tre) autori erano adusi nelle altre tre prove precedenti ( L’artista, 2008 , Il mio capolavoro, 2016 , Il cittadino illustre ( 2018) . Metti pure che anche questo film – come i tre precedenti – è incentrato sul mondo attorno a un’opera d’arte e sul suo processo di formazione. E alla fine della fiera il salto di qualità dovrebbe essere assicurato. O no? Consigliamo lo spettatore adulto e riflessivo a valutare di persona sul grande schermo. Consigliando quindi di non fidarsi affatto solo di questi nostri “pochi scherzucci di dozzina”.
“ La crisi del cinema non ha mai fatto così ridere” ; “ L’apoteosi comica di Cruz e Banderas”; “ un piccolo gioiello di ironia e intelligenza”: a volte sembra darsi, anche nella critica più avveduta, una sorta di riflesso condizionato o auto-suggestione con effetto domino, per cui ciò che si percepisce è mediato da un sistema di aspettative che predispongono a vedere un quadro già ampiamente pre-annunciato ( la Gestalt insegna) : se gli autori dell’opera d’arte sono pure simpatici, acclamati e cool nel mainstream dominante, allora siamo indulgenti sino in fondo e ci apprestiamo a libare fiduciosi con uno champagne di gran marca. Ma andato a male , giacché stappandolo non vi rinveniamo le preziose bollicine, ma un sibilo flebile e sfiatato .
E’ come se i tre autori argentini, che con efficace e caustica ironia erano riusciti a smascherarci coi loro primi tre film il mondo dell’arte letteraria e dell’arte contemporanea – mostrando piena padronanza dei meccanismi a questi sottesi e delle relative contraddizioni socio-culturali generali- ora messi di fronte al compito di “inventarsi” un cosiddetto film da ‘festival e botteghino coi migliori sulla piazza’ ( da qui il rimando inglese Official Competition), in un’operazione di c.d. metacinema satirico, e con mezzi ora ben più cospicui, si siano come smarriti nel complesso dell’’asino di Buridano’, partorendo soluzioni piene di stereotipi e scorciatoie prive di autentico mordente.
Eppure, senza andare tanto lontano ( e il metacinema – che riflette e spesso ironizza su se stesso- esiste fin dalla nascita del cinema stesso) bastava vedere, come sullo stesso tema – il disvelamento del processo e del mondo attorno a uno ambiziosissimo pseudo-colossal – solo 6 anni prima i Fratelli Coen erano riusciti ad imbastire col loro Ave Cesare ! un movie dove si ride sempre di gusto, senza stancarci, e si riesce a continuare a pensare. Trasformando in modo esilarante in irresistibili plot nientepocodimeno un dibattito sul materialismo dialettico e/o uno teologico ( A Serious Man).
Certo non tutti sono i Fratelli Coen, e non tutti, come nel caso di Cohn – Duprat, hanno innato umorismo ebraico e stessa esperienza più che trentennale con la macchina dell’industria hollywoodiana, come i genialissimi Minnesota’s Bros. Diciamo che la capacità antropologica-empirica del duo argentino non esce obbiettivamente, almeno per ora, fuori dalla scena sudamericana. E comunque estranea all’ humus degli Studios nordamericani, che per antonomasia sono , nel bene e nel male, l’industria paradigmatica del cinema .
E’ anche probabile che la sceneggiatura, che ben controllavano nei loro precedenti film argentini, sia qui loro sfuggita di mano, nessun director cut quindi, soverchiati dall’ autoreferenzialità delle tre star, anche produttrici del film. Ma gli è andata male così pure a queste, specie ai due attori-feticcio di Almodovar , poi approdati a Hollywood, Penelope Cruz e Antonio Banderas, perché alla fine sono risultati semplicemente fuori ruolo e coì troppo ‘caricati’ da arrivare allo sguaiato, mentre loro pur bravi compagni di ventura, sono sacrificati nel ruoli, seppur più composti , ironici e sorvegliati: Oscar Martinez/Ivan , deuteragonista di Banderas/ Felix , e mostro sacro a Baires (oltre che miglior attore/Coppa Volpi a Venezia per Il cittadino illustre), e ancora di più Josè Luis Gomez Garcia, istituzione spagnola come attore anche di cinema (Gli abbracci spezzati , L’ultimo inquisitore), sodale artistico di Grotowski, Handke , Strasberg, soprattutto uomo di teatro internazionale a tutto tondo (Teatro Nacional Espanol, Odeon e Opera a Parigi, Schaubuhne a Berlino, Kammerspiele a Monaco).
Nel “nostro” film Gomez deve dare il lead alla storia, facendo il magnate farmaceutico che, compiuti gli 80 anni , non si accontenta della sontuosa Fondazione già a suo nome, Humberto Suarez , ma vuole passare alla storia in modo ancor più eclatante, finanziando “ un grande ponte , anzi ancor meglio un grande film”, non importa quale, basta comperare a peso d’oro i diritti che nella fiction, sono di un immaginario premio Nobel, per un suo immaginario capolavoro , Rivalidad ( tra due fratelli che si odiano a morte, l’uno spregiudicato, debordante e volgare ( Banderas) l’altro riflessivo ed eticamente tormentato (Martinez).
Ma Humberto Suarez dopo il prologo-lead appare poi solo in altre tre pose, ma di gran classe, fatte soprattutto di sguardi eloquentissimi : nella prima gli viene spiegato il film da Lola/Cruz, la regista scelta come quella più di tendenza, ma anche più geniale, pur se lunatica e tremenda; nella seconda scena a metà storia, quando Humberto imbarazzatissimo deve assistere alla prova-bacio su sua figlia Julia (ingaggiata appunto in quanto figlia di chi paga tutto per tutto questo Grande Barnum) soprattutto quando , insoddisfatta della resa di Felix e Ivan, è proprio Lola a ‘dimostrare’ iperrealisticamente (ca va sans dire) come si deve ( in realtà come safficamente desidera lei ) baciare Julia; l’ultima scena è quella finale dove Humberto riceve il premio alla prima del ‘Festival Internazionale’ assieme a Lola e a Felix. E senza Ivan (la sua assenza sarebbe il “finale a sorpresa” , in realtà davvero “cronaca di una (quasi) morte (pre)-annunciata” in tutte le fasi della preparazione di questo ‘tremendo’ Rivalidad.
Per capire meglio dove si sono ficcati e ingarbugliati Cohn-Duprat (col loro movie che è poi la fenomenologia satirica delle preparatorie fino al primo ciak effettivo), giova accennare qui di seguito alcuni short cuts di questo meta-film in fieri comparandoli con analoghe scene in Ave Cesare!
La scena in cui Cruz/Lola regista fa ripetere una decina di volte a Martinez/Ivan il tono del “buonasera” di risposta al telefono, perché non sufficientemente intenso e mirato, e a Felix/ Banderas, corregge molteplici volte la voce impastata da vero ubriaco, è banalmente inutilmente prosaica-didascalica ( “lo sapete che un buonasera ha mille sfumature? E “un ubriaco farfuglia ancora di più!“). Qui, come in varie altre scene , Lola ci deve per forza spiegare come un sillabario l’A B C in possesso di qualsiasi fruitore medio di cinema. Lo stesso fa Martinez/ Ivan quando ci dà un desolante bignami in pillole del metodo Strasberg e del relativo “lavoro sul personaggio”.
L’effetto è simile a quello di chi ti racconta barzellette, o motti di spirito, e di fronte a nessuna risata, si mette pateticamente e ostinatamente a spiegare la barzelletta stessa, e il perché della risata (mancata). Ben altra fluidità e credibilità in Ave Cesare! ha invece Ralph Fiennes/ Laurentz , regista meticoloso che catechizza il giovane astro Alden Ehrenreich nel fargli ripetere le tante sfumature di “ vorrei fosse così semplice” ( ne deriva una situazione elegantemente comica, ma anche inquietante).
Altrettanto avviene con la scena del provino del bacio sensuale che i due rivali devono dare a Julia, la figlia del produttore. Banderas /Felix con la sua consueta finezza non si esime da preavvisare la ragazza : “scusa niente di personale , ma non ho la solita erezione”, mentre Martinez succhia retoricamente e rumorosamente sulla bocca di Julia come un lecca lecca, attirandosi da Lola, un “c’è da scusarlo, poverino, si vede che non esercita da decenni”, e abbassa la cresta anche a Felix : “non è che anche tu sia stato poi sto’ granché”) .
E così ora LoLa può legittimare le sue pulsioni lesbo- adesso- vi- faccio- vedere-io-come-si-fa : s’avvinghia come una sanguisuga a Julia , la palpeggia vistosamente, la spoglia in parte e si spoglia in parte, finendo per terra con lei, con ansimi e gemiti senza fine. E la mente allora non può non correre alla sensualità sinuosa, sommessa e montante nel provino-bacio dell’aspirante attrice Naomi Watts in Munholland Drive, dove, senza dimenarsi né discindersi, abbottonata nel suo golfino fucsia , in pochi gesti di un erotismo sottilissimo mette in imbarazzo insostenibile il maturo partner “professionista della seduzione” , scompigliandogli in pochi secondi tutte le sue sicurezze machiste.
Quello infine che dovrebbe essere l’acme della grande reciproca “prova d’attore” per entrambi, si rivela poi il massimo della prevedibilità e della sciatteria di script e di acting. E alor , olè , come Felix concepirà la dimostrazione estrema della sua “arte” ? Ma ovviamente con l’unica “cosa giusta” per lui , che sa solo mirare a colpi molto bassi , a volte pecorecci anche verbalmente : muovere a compassione Lola e Ivan, con la storia che hai un cancro, ti resta un anno di vita, e comunque vuoi fare il film della vita , l’ultimo, con grande passione, eroicamente. Non è così che “all is fine” ( cavallo di battaglia che ripeterà anche alla fine) ? Come non far commuovere al tuo destino segnato anche la cinica e nevrotica Lola? Come non smontare l’ostilità del rivale Ivan, ricevendone solidarietà ( “Conta da ora in poi su di me Felix! Su tutto, io ci sono”.
Salvo poco dopo, appena uscito Felix, lo stesso caro nobile Ivan proporsi da condor a Lola che, in caso Felix dovesse peggiorare in modo da non poter proseguire le riprese “ potrei fare io, Ivan, “entrambe le parti, come di due fratelli gemelli, uno con barba, l’altro senza”. (Avverrà alla fine il contrappasso , giacché come poi sulla locandina ufficiale sarà poi Felix a fare il doppio). Con analogo cinismo Felix il giorno dopo torna sul set , fresco come una rosa, e ai premurosi comunque sconvolti due partner, che ti chiedono come hai passato la notte, gli dici che no, è stata tutta una recita, mai stato così bene, una vera “grande prova d’attore”.
E allo sdegno senza parole ,ma pieno di fuoco di una ancora più sconvolta Lola, che fugge via, commenta solo “ Però che intensità ! Chapeau!” e al “figlio di puttana” che Martinez/Ivan gli rivolge (“non si scherza su queste cose!”) ,rispondere tronfio e irridente : “ Ma non sei tu Ivan a sostenere e insegnare ai tuoi allievi di recitazione che un grande attore deve andare sino in fondo?” : nei sottotitoli inglesi rende meglio l’idiomatico tris amo-lenza-piombo/abbocco (hook-line-rinkee).
E allora uno a questo punto è già stato istruito che Ivan renderà la pariglia, ma ti aspetti almeno una piccola invenzione, piccola piccola, e che Ivan almeno non lo faccia nel modo più scontato possibile , almeno nei tempi, che cioè Ivan non lo faccia subito dopo, sapendo bene che è assodato da sempre che la vera sola efficace “vendetta è un piatto che si serve freddo”( se lo facesse a caldo renderebbe il tutto irrimediabilmente ancor meno credibile, logicamente e psicologicamente, se ci si pensa bene): ti dici no, non può farlo, dai, e invece “Ivan l’infame sorrise”, facendo esattamente la cosa più storta, e attacca a caldo con la ovvia captatio benevolentia di Felix/Banderas, titillandolo in lodi: “Lo devo ammettere Felix, sei tu il vero grande attore tra i due, giacché tu sai come arrivare davvero al cuore della gente , rispetto alle mie sovrastrutture intellettuali” e quando quello abbocca all’amo come nemmeno un allocco cloroformizzato (“ti sarò immensamente grato tutta la vita , Ivan, per questi apprezzamenti verso di me, proprio tu che sei davvero un’autorità carismatica nel teatro!”), l’altro non può non rispondergli che “ gli ha semplicemente reso la cortesia”, e che non si illuda che il suo pensiero su di lui(Felix), sia minimamente cambiato e che Ivan lo considera solo un guitto vuoto e senza talento.
Scaramucce piuttosto stucchevoli queste tra due c.d. grandattori, piccoli focherelli che non scaldano il riso e l’intelligenza e il pensiero corre pure per esempio a Venere in Pelliccia o Carnage , e di come Polanski avrebbe trattato il confronto sulfureo, ma anche tragi-comico, grottesco, tra una coppia o un quartetto di personalità istrioniche e manipolatrici, qui un terzetto poi. O ancora ai Cohen di C’era una volta a…Hollywood.
Qui in realtà Cohn-Duprat, sembrano soprattutto preoccupati di imbandire il più possibile la scena, nell’ansia da prestazione di dimostrare quanto sono colti, come usano materiali colti, citazioni colte, a la page, affastellando e gonfiando pletoricamente la storia più per accumulo che per visione strategica.
In questo Finale a sorpresa, in conclusione a mancare è non solo la sorpresa , ma ancor più proprio quell’allusione che nella sua desolante assenza apre una voragine dove va a sprofondare alla fine senza rete il treno di Cohn-Duprat ; quell’allusione che è il cuore della vera satira , che scorre come veleno sottile, e pugnala con stiletti ancor più sottili. Che filtra leggera tra i tendaggi più spessi , senza aver bisogno di “farci vedere cosa- si- fa- e-come- si- fa”. Nemmeno l’ombra di qualsiasi tono sottovoce, a passi felpati, ogni evento squadernato sempre in anticipo, zelantemente spiegato a monte.
Da salvare comunque in tutto questo caravanserraglio alcune situazioni, in cui si intravvedono i fondamentali rimasti intatti del duo (trino), come quella in cui Ivan è in casa con la moglie ( definita “mostro lesbico” dal solito assai ‘lieve’ Felix) ad ascoltare assieme rapiti musica dodecafonica . E Ivan ispirato: “Senti, senti qui : come entra in crescendo, e poi va secco come uno sparo…” E la moglie trasfigurata : “Sì , sì, mi affascinano tanto questi rumori, questi colpi tribali…”. Ma Ivan subito dopo tende meglio l’orecchio e : “Aspetta , aspetta, ma no, no, porca puttana, sono solo i nostri vicini che inchiodano qualcosa alla parete !”. Qui si risente la vera mano di Cohn-Duprat. Che avremmo voluto sentire risuonare libera da condizionamenti e auto-condizionamenti. Alla prossima , ce lo auguriamo.
La stessa scenografia di opere e allestimenti d’arte contemporanea, dettati da Andrè Duprat che dirige l’istituto nazionale di Baires, risulta un insieme di giustapposizioni e citazioni dissonanti, fuori luogo, artifizi ( e raggiri) troppo scoperti, come “La cabeza de Goliat” dell’acclamato scultore Eduardo Basualdo , che, posta minacciosamente sulle teste dei due fratelli rivali, dovrebbe dargli, secondo Lola, “il giusto senso di oppressione costante nel rivivere il loro conflitto interiore”.
Ma anche qui sortisce solo il solito sfiatato inane sibilo. Due parole su Penelope Cruz : c’è chi ha parlato del suo ruolo come “la migliore prova d’attrice nella sua carriera”, facendole un torto , perché qui lei non è un personaggio satirico, ma una macchietta, con una capigliatura enorme rosso-fox ,ridicola per il suo viso e una foggia tra il punk e il dark, che si dimena inutilmente in gesti rigidi, scomposti e vanamente rock, fuori tempo e scoordinata, che dovrebbero definire un personaggio nevrotico e problematico. Non si può qui non ripensare a quella che sarebbe una scena-madre di autocoscienza in cui Penelope/ Lola è distesa sulla moquette della sua suite , con due tubi di aspirapolvere uno per mano, a far da trasmittente e ricevente , inanellando, scandendoli, epiteti/aggettivi su se stessa: “incompresa, lesbica, depravata, crudele, puttana, ragazza, sola, terrorizza-ta, genio, cretina, sporca, pazza, ridicola, ridicola”, che citano quelli della celebre videoartista argentina Graciela Taquini in Roles , sua ”opera prima che riflette nel 1988 sulla ricerca dell’identità femminile, in un piano sequenza intersecato da foto e video con voce off che sgrana auto-insulti : il primo autoritratto performativo nella storia della video arte argentina” ( sic).
Quando tutto è così troppo “caricato” diventa una caricatura, in senso deteriore, e così non c’è niente da ridere perché è saltata appunto la sorpresa, quello scapigliamento che appunto “ ti spettina”.
Poi alla fine della sua seduta di autocoscienza con l’aspirapolvere, Lola ammannisce ai suoi primattori Felix e Ivan le sue prescrizioni e deduzioni, facendole comunicare c ai due primattori Felix e Ivan come un ipse dixit dalla sua segretaria : “Lola vi comunica che stamane non ci sarà: “l’esperienza di ieri è avvenuta inutilmente: la proposta è quella di ripensare se stessi, l’idea è che l’incertezza, il vuoto dell’imprevisto vi possa aiutare a riflettere su voi stessi”.
E questa esperienza secondo Lola era consistita il giorno prima nel picconare le spinte narcisistiche dei due primattori, colpendoli nell’ego profondo. E come ? Ma “elementary watson”, come non andare nel concreto bellezze, distruggendovi materialmente sotto gli occhi tutti i trofei e riconoscimenti internazionali delle loro carriere, dopo prima avervi legati e imbavagliati in una sorta di un’unica camicia di forza-preservativo gigante che li avvolge entrambi ( “in un unico comune destino”, ci deve sottolineare prima Lola la metafora sottile). Normale no? Che ridere.
Addirittura l’insulso trita oggetti che dovrebbe far ridere, sembra piuttosto la reazione luddista di un adolescente arrabbiato tipo hikimori nipponico. E invece c’è chi la descrive come la “lunga affascinante, ipnotica inquadratura della macchina trita-documenti, in un sinistro cupio dissolvi che è la cifra segreta e la scena più memorabile di questo film in cui tutti mentono, simulano, manipolano”. Mah.
Purtroppo le donne e gli uomini che presiedono l’industria del cinema, e comunque vivono attorno e dentro la sua mega macchina, non parlano come questi di Rivalidad, non si muovono così : sono , se per questo, ancora molto molto più ridicoli, cinici , basicamente elementari, ma anche molto più fantasiosi nella loro molteplicità reale di tutti i bignami e i rimandi ossessivi e urticanti che abbiamo sentito e visto in Rivalidad , molto più originali nella loro normalità da One- Dimensional Man, degli aspirapolvere e delle contumelie che Lola dice a se stessa e ai suoi attori: e così i morsi reali sulle mani dei suoi attori, morsi veri, documentatissimi, pieni di foga da Rione Sanità – che la pur sofisticata partenopea dei quartieri alti, dagli aristocratici lombi germanici, Lina Wertmuller , ammanniva su tutte le dita che le capitavano a fauce, gettandosi come una verace popolana furiosa dei bassi napoletani, quando si sentiva realmente impotente e arresa a trasmettere ciò che chiedeva- tutta questa incredibile verità-bigger-than-life”- Cohn-Duprat non se lo possono nemmeno immaginare, perché sono morsi e sentimenti veri-veri, legati a radici , retroterra di umori, e reiterazioni di quella ancestrale “lingua della nutrice”, non verbale, ma potentissima, di cui Lina sentiva in certi momenti cruciali di ricorrere.
Eppure Penelope, è ben capace di far anche lei genuinamente ridere in altri film quando è nei suoi panni , nelle sue radici, e ben diretta e ben ‘scritta’ (da Woody Allen in Vicky, Cristina, Barcelona, 2008, per cui ha vinto l’Oscar , oscurando le due protagoniste (Vicky/ Rebecca Hall e Cristina/ Scarlet Johansson ) con la fiammeggiante figura di Maria Elena, la moglie schizzata, artistoide velleitaria e gelosissima che in spagnolo stretto , vociante scarmigliata gesticolante, litiga animatamente con il marito, Javier Barden (con cui è realmente sposata da 15 anni), dandoci un irresistibile travolgente personaggio vivido e passionale , comico ma anche tale da farvici identificare qualsiasi trentenne moglie latina e/o mediterranea.
Il cosiddetto “finale a sorpresa” è in realtà nella penultima scena ampiamente annunciato da un monologo di Ivan con un dirigente della produzione, in cui egli sputtana e denigra ampiamente Felix, e manifesta tutta la sua avversione per questi, cosicché quando subito dopo i due si fronteggiano in terrazza, e Felix gli contesta di averlo infamato, fronteggiandolo ostile, Ivan fa quello che ci immaginiamo , e per cui siamo stati avvisati per tutto il film, e soprattutto finisce come ci immaginiamo, una volta che si muove contro Felix per dargli un pugno. E Felix fa una semplice mossa di Wing Tsun Awta, per cui cui abbiamo visto allenarsi ogni giorno col suo personal trainer: trasferire la forza di chi ti aggredisce in forza centrifuga così che l’aggressore finisca al volo nel piano di sotto, scansandoti tu di lato, deviandogli il braccio, e accompagnandolo così a farlo finire fuori dal balcone.
Rimane da salvare anche lo specchiarsi nella toilette dove Banderas si rifugia a caldo e choccato dopo l’incidente senza testimoni: e ora allo specchio, sembra citare De Niro di Taxi Driver o Toro scatenato, ma non lo imita, lo reinterpreta a modo suo ripetendosi ”all is fine”. Qui ritroviamo il lampo di Banderas.
E subito dopo, al ritrovamento del corpo di Ivan (poi sapremo che è sopravvissuto, ma in irreversibile stato semicomatoso) a parlare finalmente è solo la musica alta : la famosa sonata 4 per pianoforte (La Grande Sonata) op. 7 di Beethoven- interpretata intensamente dalla talentuosa, già celebre a 37 anni, artista spagnola Judith Jauregui . Questa sonata , nel suo passaggio “largo con grande espressione”, in soli tre minuti purifica tutto l’inutile, banale, pletorico frastuono delle scene precedenti, avvolge ora i volti silenziosi e finalmente espressivi dei protagonisti che si aggirano attoniti e gravati , alle luci notturne sulla terrazza dell’ incidente dove nessuno ha visto nulla (E’ caduto? Si è gettato volontariamente? “Era un personalità così complessa e tormentata il povero Ivan..”), commenterà in conferenza stampa a film proiettato lo spudorato Felix . Ma la sonata 4 per quei tre minuti pervade il film e gli conferisce il giusto momento di un’epica misurata.
E portiamoci dietro ancora un’ultima immagine, quella di chiusura, che riempie poi tutto lo schermo, con l’enorme primo piano del viso e degli occhi castani di Cruz, che semplicemente guardano, interrogativi, riflessivi, saggi finalmente, e come Penelope ti danno il senso di tutto, senza trucco e sovrastrutture strane. Riso, pianto, grottesco e tragico , sono tutti lì, mischiati come nella vita vera non ‘caricata’, che davvero “supera ogni fantasia”. E lo sanno sicuramente anche Cohn-Duprat, che malgrado la gonfiezza di una macchina di cui hanno smarrito il controllo, e in cui si sono incasinati quasi sempre, sono riusciti nella parte finale a piazzare alcune loro zampate d’ autore . Guarda caso Banderas, Cruz,Martinez, Lopez Garcia hanno dato il meglio di sé quando sono stati fàtici, hanno parlato solo con lo sguardo, e la musica e tralasciato gli stereotipi, le citazioni pseudo colte, i luoghi comuni, le installazioni inutilmente eleganti e a la page.