Andrea Ascolini, un musicista a tutto campo. Polistrumentista, compositore e arrangiatore, ha lavorato a lungo con il compianto Dante Torricelli, certamente uno dei pianisti e direttori d’orchestra più talentuosi e vivaci della nostra città. Ma l’esperienza di Ascolini viene da più lontano, dalla sua collaborazione con la storica compagnia del Teatro dei Burattini di Otello Sarzi per la quale, giovanissimo, scrisse musiche di scena. Già in questa fase, la fantasia e il rigore tecnico, ben combinati tra loro, davano al suo lavoro un carattere insieme aereo e solido. L’esperienza è poi continuata fino alla più recente produzione, Swingin’ cool, un cd (Bastogi Music) in cui sono raccolti i suoi lavori jazzistici, che confermano come l’ispirazione e l’impianto tecnico di Ascolini attingano alle più diverse fonti musicali, giungendo poi a una sintesi soggettiva riconoscibile, a uno stile molto personale che immerge l’ascoltatore in atmosfere “magiche”, soffuse e dinamiche. Andrea è il nipote di Vasco Ascolini, il fotografo reggiano noto a livello internazionale.
In relazione alla musica di teatro per bambini, cosa puoi dire del tuo rapporto con la musica da bambino?
Da piccolo il mio rapporto con la musica è stato abbastanza superficiale, con le solite suggestioni delle mode. Mi hanno riferito (io non lo ricordo) una certa passione per Buscaglione, Celentano, Carosone… Quando mio padre mi regalò una chitarra avevo più o meno undici anni e queste preferenze erano già tramontate. La chitarra rimase letteralmente in un armadio fino al liceo, quando cominciai a suonarla. E’ singolare che mio padre mi avesse sempre ritenuto negato per la musica, avendo lui qualche competenza per trascorsi giovanili da cantante non professionista di musica leggera, in puro stile “crooner” . Ogni tanto mi ripeteva che avrebbe perfino scommesso su questa sua convinzione… Certo che fino alla mia adolescenza le cose gli stavano dando ragione. Poi successe un po’ tutto in una volta. Dopo qualche anno con la chitarra è cominciato lo studio del flauto, lo scrivere canzoni, l’ascolto di Debussy, fino ad arrivare al sax e all’arrangiamento moderno. La musica da teatro risale più o meno a un periodo di mezzo, ed è stata certamente una coincidenza (essendo io solo un amico di famiglia) che Otello e Mauro Sarzi mi abbiano proposto di scrivere dei brani per uno spettacolo che stavano preparando (“Melodia tra foglia e foglia”), dopo avermi visto trafficare col registratore nel loro laboratorio per ripulire alcune tracce musicali per numeri di burattini che avevano in programma. Fu la prima volta che usarono musiche originali e il risultato fu incoraggiante, anche se riascoltarle oggi mi imbarazza perché le realizzai in camera mia, con ciò che avevo allora e insieme ad amici che cantarono le canzoni con poca abilità ma tanta disponibilità e incoscienza. In seguito furono principalmente musiche strumentali e quindi l’aspetto dilettantesco (che con le voci emerge facilmente) venne virtualmente cancellato.
Devo confessare che le canzoni per bambini erano un po’ “bambinesche”. Credo sia difficile uscire dagli stereotipi “zecchinari” quando si tratta di canzoni, forse è il testo che spesso spinge ad abbassare anche il livello delle melodie, forse per un bisogno di coerenza interna della scrittura. Discorso diverso per le musiche strumentali che possono essere perfette per bambini pur se “adulte”, basti pensare ai classici di Disney e ai passaggi musicali più ricchi, difficilmente etichettabili come musiche per bambini.
Così al mio orecchio attuale suonano assai più mature le musiche per “Gulliver”, “Don Chisciotte”, “La gondola fantasma”, “Storia di un calzino”, tanto da spingermi ad averne registrate nuovamente oggi alcune, con strumenti attuali capaci di portare quel respiro sinfonico che avrei voluto già allora ma irrealizzabile senza una orchestra a disposizione.
In queste creazioni teatrali c’è un aspetto fiabesco. E’ solo didascalico o c’è una cifra di mistero nel tuo vivere l’esperienza musicale?
Certamente il mistero è una parte dell’insieme… Mi sono accorto però che il quanto sia importante dipende da quale attività musicale sto vivendo. Nell’ascolto mi accorgo che ho due atteggiamenti: uno più tecnico, durante il quale analizzo i passaggi e le atmosfere per cercare di capire come l’autore ha fatto ad ottenere quel risultato; un altro modo prevede invece farsi attraversare, “subire” la musica senza ragionare, un taglio insomma quasi impressionista, indubbiamente più divertente, certo più magico, forse il modo più “giusto” di ascoltare.
Nel momento della scrittura musicale, poi, è ancora diverso. La magia può nascere da una semplice melodia, e forse è il momento più puro, più essenziale, che ha luogo solitamente mentre uno ha lo strumento in mano e tenta qualche strada tranquilla, lontano da ricerche affannose. Non si può però negare che altre volte ci ha colpito un “suono” particolare, o una voce che emerge da un magma inaspettato, e credo che in questi casi chi ha scovato quel suono (almeno questo è ciò che è capitato a me) ci sia arrivato dopo noiosi e fiaccanti ascolti di enormi librerie di suoni, alla ricerca di un timbro particolare o anche solo del più bel timbro possibile per un suono comune. Sono perfettamente conscio che questo è essere schiavo della tecnologia e che certo Mozart non ha mai avuto problemi simili, ma con gli standards attuali è impossibile non porsi il problema della qualità del suono o della registrazione. E poi nessuno mi toglie dalla testa che se Mozart vivesse oggi subirebbe lui pure il fascino della ricerca di suoni nuovi e dell’uso creativo (e non banale) di un sintetizzatore.
La tua parentela col fotografo Vasco Ascolini ha influito nel definire il tuo rapporto con la musica? Ad esempio l’interpretazione della realtà attraverso il bianco e nero…
Non avevo mai pensato a una possibile influenza, che in prima istanza tenderei ad escludere. Poi, ragionandoci, credo che qualcosa ci sia, seppure sottotraccia. Un individuo è formato anche dagli esempi e dalle frequentazioni, e sia mio padre Brenno che mio zio Vasco hanno condotto una vita segnata da una cifra di integrità assoluta. Mio padre rifiutò la carriera di sindacalista per rimanere portalettere (quindi senza perdere il contatto con i lavoratori) e continuò l’attività sindacale volontaria e gratuita. Vasco, negli anni in cui collaborò con il Teatro Valli come fotografo ufficiale, chiese (e ottenne) come sola ricompensa il permesso di muoversi liberamente durante prove e spettacoli e il rimborso unicamente del materiale fotografico di consumo. Vorrei poter dire che questa è la scuola (non musicale) a cui mi sono formato.
Dal punto di vista artistico Vasco è piuttosto onnivoro, ma ha indirizzato la sua attività con una coerenza straordinaria, tetragona pur nella successione dei diversi periodi (di teatro, architettonica). Di me devo invece dire che in musica mi faccio affascinare da tanti generi e stili, ma mi è mancata – e non ho mai cercato – una direzione unica nella produzione personale. Canzoni, musiche di scena, brani strumentali di sapore “jazz” o “sinfonico” (non essendo un jazzman né un compositore classico), di volta in volta mi faccio rapire dalla suggestione di un risultato carino e dall’aver assimilato quel particolare linguaggio in modo credibile. A pensarci bene è l’esatto contrario del bianco e nero di Vasco, ma dato che non sarò mai un musicista di professione questo bisogno di coerenza mi è risparmiato, o quanto meno rimodellato su una coerenza diversa, meno operativa e più esistenziale, del tipo “lo faccio perché mi piace”.