Su una cosa, scontatissima peraltro, son tutti d’accordo: era meglio, molto meglio il Mercato Coperto. Vivaddio, erano altri tempi, il commercio nella ristorazione è mutato assai negli ultimi 50 anni. Sono mutati i costi, i gusti, le tipologie di prodotti, la filiera per arrivare al consumatore, i prezzi degli affitti e più in generale il mercato del lavoro, le sensibilità ambientali, pure il parco dipendenze e/o patologie legate all’alimentazione. Insomma siamo in un’altra era. E rimanere attaccati a cliché anni ’80 o proiettati in soluzioni vegane (dalla stella polinesiana Vega) semplificatorie, non rende giustizia al problema, piuttosto complesso.
E così da una parte abbiamo i già celoduristi della Lega decisi a portare in Consiglio comunale la provocazione delle patatine gusto pube (maschile e femminile a vostra preferenza), oltraggiati da cotanta ardita esposizione che si potrebbe configurare come atti alimentari osceni in luogo pubblico. Ma come, i cantori della nerchia sempre di un certo spessore, oggi mi son diventate mammolette, educande da debutto conventuale e se vedono il sacchetto di chips pussy-pussy si scandalizzano? E’ l’offerta del mini centro commerciale in centro, bellezza, sdoganata da anni in tutto il pianeta, o meglio in quelle parti rimaste libere. Se ti schifano, compra altro, che so, il ricettario di suor Germana, non siamo in Iran.
Poi ci sono i tradizionalisti dal cappelletto facile. La cui credibilità filologica si gioca nel farsi rappresentare dal vice-presidente dell’Associazione, l’assessore quattrocastellese Danilo Morini. E sapete perché? Perché il presidente, meglio la presidente di questo gruppo di duri e puri del piatto tipico nel cuore cittadino, è Fulvia Salvarani, che due anni fa ha lasciato il Caffè Arti & Mestieri, in centro a Reggio, a due passi dall’attuale “Eat & Meet” peraltro per trasferirsi armi e bagagli in Liguria. Quelli del cappelletto sempre e comunque hanno aperto un centro temporaneo di vendita del cappelletto casalingo poi se ne andranno. Toccata e fuga. Più fuga che toccata: i cappelletti artigianali costano 40 euro al kg in qualsiasi rosticceria della periferia. Come si fa a venderli all’ex Mercato Coperto col ricarico degli elevati costi d’affitto?
Infine si insinuano i soliti salutisti di penultima generazione, per lo più sponsorizzati, che maledicono lo gnocco fritto col salame (peraltro piatto luculliano della nostra tradizione, specie alle Feste dell’Unità), a favore di costosissimi grissini coi semini. Che, per carità, fanno di certo meglio alla salute del panino alla porchetta ma ahinoi 1) i prodotti della coltivazione biologica sono off limit per oltre l’80% della popolazione, per evidenti motivi di prezzo 2) sempre della serie non siamo in Iran, uno è libero di farsi del male come vuole. Ergo se vuole sfondarsi di cicciolata, prego si accomodi, se invece vuol vivere d’aria, sempre liberissimo di farlo. Agli alfieri del tofu, caratteristici di città opulente e pantofolaie, andrebbe fatta leggere la vita dei primi prionieri antartici di inizio ‘900, i quali, per non crepare di scorbuto, dovevano ingurgitare quotidianamente chili di grasso di foca, mica starsene sul divano a googolare i cavoletti di Bruxelles (peraltro ottimi).
In ultima analisi, l’eventuale risoluzione di un problema, quello della ristorazione e delle tipologie di cibo offerte, non si risolve certo con posizioni banalizzanti e ricette, per restare nella terminologia più appropriata, un tanto al braccio. C’è chi fa ottima ristorazione dal centro o dai quartieri e chi fallisce, chi cucina come avrebbe voluto la nonna e chi invece utilizza le provette del macrobiotico, chi vende cibo industriale e chi sforna manicaretti più unici che rari. La ristorazione è divisa in tante e differenziate nicchie competitive, grazie al cielo, e chi è bravo, forte ed ha pure un po’ di culo fa i soldi, gli altri chiudono i battenti. Non basta aprire una pizzeria una tantum per diventare ricchi. Perché un diamante è per sempre, un ristorante pro-tempore.