Ne è passata di acqua sotto i ponti, dalla chiusura (infausta) di quel progetto Matrix che tanto aveva segnato l’immaginario fantaparanoico delle giovani generazioni a cavallo tra secondo e terzo millennio. In questi ultimi lustri, i Wachowski hanno fatto uscire il cartoonesco e poco apprezzato Speed Racer (2008), mentre il maggiore dei due fratelli ha gradualmente cambiato sesso passando da Larry a Lana.
Quest’inverno, l’ambizioso duo registico è tornato sui grandi schermi in pompa magna adattando il corposo romanzo di David Mitchell dal titolo L’atlante delle nuvole (assai meno evocativo dell’originale Cloud Atlas, mantenuto invece per la distribuzione italiana del film).
La trama, impossibile da riassumere in poche righe, si dipana su sei piani temporali diversi (numero di certo non casuale che richiama, tra l’altro, anche l’ormai abusata teoria dei sei gradi di separazione). Ogni linea narrativa sembra in qualche modo legata alla precedente e/o alle successive, e molti dei personaggi – interpretati dagli stessi attori truccati in maniera differente – reiterano la propria esistenza nei secoli attraverso nuove reincarnazioni e ripercorrendo destini karmicamente correlati.
Nulla da eccepire sul cast stellare (Tom Hanks, Hugh Grant, Halle Berry, Hugo Weaving, Susan Sarandon e altri), né sulla robustezza o la spettacolarità della regia (co-firmata, per questa fluviale epopea, assieme al Tom Tykwer di Profumo – Storia di un assassino). Alla fine della visione, tuttavia, rimane la persistente sensazione di aver assistito ad un elaborato pastrocchio new age con evidenti – e ragionevolmente autobiografiche – suggestioni transgender che, nel tentativo di avere un ampio respiro, rischia l’iperventilazione e stordisce i suoi spettatori, regalando loro un prodotto sì visionario ma anche decisamente retorico.
Non proprio un’occasione sprecata. Forse più un capolavoro non convincente.