Timori per il dopo coronavirus: meno liberi e meno verdi?

Parigi – Le acque azzurre dei canali veneziani, i cieli limpidi, le allegre scorribande di animali domestici e non nelle città di tutto il mondo stanno rallegrando le nostre giornate tra quattro mura e alimentando la speranza che alla fine del lockdown ci attenda un mondo migliore. Gli inviti a ripensare, a reinventare, non solo la nostra società ma tutto il pianeta, si moltiplicano a ogni livello dopo che l’epidemia del coronavirus ci ha dimostrato che siamo dei colossi dai piedi d’argilla, vulnerabili al di là di ogni possibile previsione.

Ci si augura tutti che i sacrifici che stiamo compiendo per evitare il contagio e la riscoperta di valori che il consumismo e il turbinio delle nostre vite ci avevano fatto dimenticare si traducano in un cambiamento radicale per il bene nostro e della terra. Sarà così come ci auguriamo? Gli scettici non mancano, convinti che una volta superata la crisi sanitaria, il mondo riprenda a girare nella stessa direzione e forse anche a una velocità superiore per cercare di riparare ai danni economici e sociali provocati dall’arresto delle attività nel mondo dal Covid 19.

Alcune nubi che si stanno addensando sui nostri cieli dovrebbero certo invitarci a un’estrema vigilanza. Per cominciare, sull’onda dell’emergenza,  sono molti i paesi democratici, tra cui Italia e Francia, che hanno imposto misure che fanno un po’ a pugni con i diritti: confinamenti, divieto di spostamenti, sospensione dei riti per i morti, tracciamenti via cellulari, chiese chiuse. Tutto un armamentario anti epidemia che è stato accettato dalle popolazioni spaventate dal rischio di contagio ma che ad alcuni fanno temere future tentazioni di svolte autoritarie.

Di questo clima di emergenza stanno già approfittando paesi come ad esempio la Polonia che sta ritirando fuori una legge antiaborto e imponendo al paese elezioni presidenziali con il voto per posta in un momento in cui è difficile predisporre le necessarie campagne elettorali.

In Francia poi si teme in particolare uno scardinamento dell’organizzazione del lavoro e un addio alla settimana delle 35 ore. Prima il Medef, la confindustria francese, per bocca del suo presidente Geoffroy Roux de Bézieux,  ha evocato la possibilità di lavorare più per “accompagnare la ripresa”. “Prima o poi, ha aggiunto, bisognerà affrontare il problema dell’orario lavorativo… e facilitare la creazione di una crescita supplementare lavorando di più”. Parole che hanno sollevato aspre critiche dai sindacati senza però che venisse una smentita dal governo. Un sottosegretario all’economia ha infatti dichiarato che per recuperare il tempo perso e aiutare le tesorerie delle aziende in difficoltà “bisognerà lavorare di più’.

Mentre  ci consoliamo degli 11.000 morti in meno al mese per la riduzione dell’inquinamento e ci siamo riabituati a silenzi interrotti solo dal canto degli uccelli,  alcuni altri segnali ci  invitano a non dare per scontato che il problema clima sia destinato ad avere la priorità nel nostro futuro.

Certo sono infinite le voci che hanno denunciato il nostro scarso rispetto per la terra tra le cause della devastante epidemia che si è tradotto in inquinamento atmosferico, accelerazione del riscaldamento della terra,  forte riduzione della biodiversità.

Si teme invece che la necessità di ritrovare al più presto un andamento economico positivo siano proprio i programmi di salvaguardia del pianeta a farne le spese. Già Polonia e Repubblica ceca si stanno defilando dal Green Deal, l’accordo europeo che prevedeva l’azzeramento nel 2050 delle emissioni di gas serra. Il primo ministro ceco Andrea Babis ha invitato l’UE a dimenticarlo per concentrarsi  nella lotta contro il Covid.  La Polonia, la cui economia ed elettricità è altamente dipendente dal carbone, ha fatto sapere che cercherà prima di tutto di aiutare le sue aziende ed ha quindi messo nuovamente in causa l’utilità del sistema di scambio di quote di emissioni.

Per il presidente della commissione ambiente del Parlamento Europeo, Pascal Canfin,  “il Green Deal rimane al centro della nostra risposta economica. A suo avviso la crisi economica che ci attende, assai più grave di quella del 2008, con una perdita del PIL che potrà raggiungere il 15%,  dovrà essere l’occasione  e un’opportunità per l’indispensabile transizione ecologica. “Non abbiamo più il tempo né i mezzi di un rilancio che non tenga conto della crisi climatica che non è scomparsa con il Covid19” ha dichiarato al settimanale Le Point.

Il problema del clima non sembra però occupare ampio spazio nelle previsioni del dopo coronavirus del noto economista francese Patrick Artus.  Due a suo avviso sono gli scenari che ci attendono: uno da “dopo crisi” se l’epidemia non dura a lungo, l’altro da “dopo guerra” se dovesse protrarsi al di là di due trimestri.  Nel primo caso si farebbe ricorso alle cure classiche nel secondo invece ci sarebbe a “un cambio di logica” con una massiccia monetizzazione del debito pubblico, una forte inflazione, un forte aumento delle tasse,  numerose nazionalizzazioni di aziende e banche e scelte strategiche, finanziarie e di investimenti fatte dallo stato.

Nella nebbia in cui è ancora avvolto il nostro futuro sarà, mi sembra, più che mai necessario non abbassare la guardia e restare vigilanti.

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