Reggio Emilia – Se le tecnologie digitali aiutano lo sviluppo e la crescita, è da Reggio Emilia che arriva un appello non solo a recuperare il terreno perduto con lo smantellamento di tutto ciò che aveva contribuito a mantenere aperta per il nostro Paese la grande avventura della tecnologia digitale (in primis l’Olivetti), ma soprattutto a riflettere sui termini di ciò che si configura come una vera e propria rivoluzione: nell’organizzazione del lavoro, nella diffusione e uso del sapere, nel concetto stesso di produzione e di prodotto.
A mettere i puntini sulle i di questa straordinaria sfida che l’Italia rischia di giocarsi a mani nude o di non giocarsi affatto, è Armando Sternieri, amministratore delegato di Energee3 e di Thedotcompany aziende di servizi online per le imprese, due realtà in grado di confrontarsi con il panorama internazionale, in particolare europeo. E dal momento che sono proprio le tecnologie digitali al centro dell’attività delle due aziende, l’intervento con cui Sternieri “racconta” l’avventura di chi vuole portare avanti la sfida digitale nel nostro Paese parte dall’analisi dei dati emersi dal report economico sociale esposto alla Camera di Commercio di Reggio Emilia l’11 dicembre, coordinato da Gino Mazzoli psicosociologo, esperto di problemi del Welfare e del Terzo settore.
Scuola e formazione soprattutto sono al centro di questo cambiamento radicale. Reggio Emilia, infatti, territorio che pure non ha conosciuto stasi nel processo di crescita, presenta tuttavia uno “scostamento” fra scuola e formazione, presentando il più alto tasso di abbandoni scolastici della regione. “Quello relativo agli abbandoni scolastici è un dato che si lega a possibili problematiche nel mantenimento di un trend di crescita che si può riflettere sullo sviluppo”, dice Sternieri.
Mettendo in chiaro un punto, vale a dire la differenza fra crescita, “in cui si parla di numeri”, e sviluppo, “in cui si parla di processo, e riguarda la vita delle persone”. Con una riflessione: “Uno sviluppo legato a una situazione di decrescita non credo possa accadere”.
Ma qual è stato il ruolo delle tecnologie digitali e della conoscenza? “Si tratta – spiega Sternieri – di due processi fondamentali che hanno aiutato i settori tradizionali, che li hanno utilizzati per prodotti o servizi nuovi.”.
Se infatti, ricorda Sternieri, si indaga su quale impatto l’informatica ha avuto sullo sviluppo e la crescita sul pil di un paese o di un settore, emerge che, alla fine degli anni 80, negli Usa si giunge alla conclusione che non ve n’è stato alcuno. “Su questo punto si aprì una riflessione profonda – continua Sternieri – che condusse a una conclusione. Le tecnologie digitali non possono essere applicate ai processi esistenti, ma serve una profonda ricostruzione degli stessi”.
Insomma, bisogna ripensare tutta l’organizzazione aziendale. Passati a questa fase, gli Stati Uniti aumentano il pil in modo sbalorditivo. La crescita Usa dal 95 in poi, (con la new economy) si situa nel solco di un uso strategico delle tecnologie digitali. “Pensare nuovi prodotti, pensare nuovi servizi, non usare le nuove tecnologie per supporto, ma cambiare il modo di pensare il sistema – spiega Sternieri – tutto ciò conduce all’ipotesi che la mancata crescita italiana sia legata a un errore fondamentale, quello dell’uso delle tecnologie digitali che non vedono un cambio di processi, ma un loro ruolo di automazione e supporto rispetto al sistema esistente”.
In altre parole, ciò che serve è una effettiva rivoluzione. Un ricambio totale, che coinvolge tuti i settori e i protagonisti del mondo economico, e quindi, fatalmente, il lavoro, la sua creazione, la sua organizzazione e persino i rapporti di forza fra datore di lavoro e lavoratori.
“Intanto, servono figure professionali di un certo tipo, vale a dire professionisti – spiega Sternieri – ma questi mancano. L’Italia si trova al quart’ultimo posto per laureati in europa ”. Ma, ed è questa la sorpresa, Sternieri sottolinea: “Non servono solo informatici, che sono l’ultimo passaggio, lo “scarico a terra”, delle idee, della progettazione il cui grosso sta a monte”. E dunque, cosa serve?
“Dal momento che per progettare l’innovazione deve essere partecipata, vale a dire è necessaria la presenza, il ruolo attivo dell’utente finale. L’innovazione non è guidata dai tecnici, ma da quelli che hanno saperi umanistici, che conoscono l’uomo. E purtroppo, mancano anche questi. Non ci sono gli informatici, non ci sono gli umanisti. Se il processo dell’innovazione si inceppa nella prima fase, la città di Reggio produce pochi laureati. Se ci si inceppa nella prima fase, quella di ideazione, tutto il processo si ferma dall’inizio”.
Le aziende diventano così quasi dei centri studi, hanno bisogno di sapere, di varie forme di cultura. Il punto critico diventa dunque la formazione. “La spinta alla super specializzazione è sbagliata in questo momento, perché diventa subito obsoleta. Bisogna fare una formazione continua dalla scuola primaria all’università”. Ed è questo il motivo per cui un’azienda dovrebbe ingaggiare persone con contratti a tempo indeterminato, per promuovere e valorizzare le competenze.
Foto: Armando Sternieri