Un’esperienza originale che rende questo borgo ventoso affacciato sulla Valdorcia, sbalzato in una luce quattrocentesca che è di Piero della Francesca ma anche del Giorgione, un caso unico nel panorama teatrale italiano (e son solo). Si chiama “autodramma”, come la battezzò Giorgio Strehler, questa speciale forma di drammaturgia partecipata, gli abitanti che si mettono in scena a raccontare e raccontarsi, passato presente futuro, in un intreccio esclusivo che profuma di antica cultura popolare, di saggezza contadina, di vecchie tracce che sono cronaca e memoria, di storie piccole e personali che sono la storia di noi tutti, e che ogni volta si rimette in gioco, sfida i mutamenti e l’incalzare caotico della contemporaneità. Il Teatro Povero che può anche essere una forma di “resistenza” che vive tutte le contraddizioni del tempo presente, che non si adatta a essere solo “folclore e amarcord” o sbiadito album di famiglia, sfoggia ogni volta un bel potenziale critico, una indocile, trasgressiva forza di comunicazione che va oltre la conferma della propria identità comunitaria, grazie anche all’impegno del regista demiurgo drammaturgo Andrea Cresti. Il nuovo capitolo del Teatro Povero si chiama “Argelide”, riprende il filo di un discorso avviato negli ultimi due lavori (“DuemilaNove” e “Volo precario”) e nasce come i precedenti dopo una lunga fase di gestazione in cui si sono mescolate storie di vita, memorie, episodi di ieri e di oggi, la politica, la società, i vecchi e i giovani, genitori e figli. Sulla scena oltre 50 persone che riflettono e si confrontano sull’attualità sociale e sulle difficoltà, soprattutto delle giovani generazioni a trovare un proprio posto nel mondo, a costruirsi un dignitoso futuro, strette come sono nella morsa del precariato e dell’insicurezza. Gli attori-cittadini di Monticchiello si interrogano su rischi, derive e speranze di un mondo in rapida e indecifrabile trasformazione. In un paese come il nostro che festeggia 150 anni di unità nazionale, sempre più schizofrenico e destrutturato. Se qualche anno fa a congedarci furono le note dell’Internazionale. Stavolta a chiudere il sipario è stato l’inno di Mameli. Ma se quelle erano ironicamente benauguranti, questo è decisamente stonato e inguaribilmente smarrito. Perché non c’è quasi più niente più da salvare nel Belpaese 2011 sull’orlo del fallimento, aggredito da un debito pubblico spaventoso, impensabile, al quale sembra impossibile porre se non rimedio almeno un freno. La gente di Montichiello si riappropria della sua storia e ci racconta la nostra storia. E tanto per cominciare, coi tempi che corrono, taglia dove è possibile (luci, effetti speciali, scenografie) a cominciare dal palcoscenico. Lo spettacolo scarno e corale, impreziosito da una passione autentica che svetta nella recitazione di tutti gli “attori-non attori”, calato in una sorta di realismo magico, visionario e cronachistico, guarda la sua eroina Argelide, un nome che sembra uscire da una tragedia classica, che altri non è se non questa Italia che compie 150 anni, una decrepita figura di donna che sola cerca di resistere alla corruzione e al degrado. La lotta è impari. I giovani pensano ad altro e i profeti sono sempre più disarmati.
Gabriele rizza