Partono i bastimenti. Un tempo, carichi di migranti che erano i nostri poveri in viaggio verso l’ avventura dell’America. Adesso partono gli aerei, anche questi affollati di immigrati dall’Italia: questa volta non i poveracci ma i cosiddetti cervelli, che potrebbero giovare molto all’economia, la cultura, lo sviluppo del paese. Partono tutti, persone e soldi, che sono strettamente connessi, e se ai primi adesso si offrono incentivi per tornare, paradossalmente non si fa altro che incentivare la fuga, incoraggiata dal defiscalizzato ritorno.
L’Istat annota 94 mila italiani che hanno lasciato il paese nel 2021, il 38 per cento in più rispetto a dieci anni prima. Uno su tre, dunque ben 31 mila, tra i 25 e i 34 anni, quasi la metà (14 mila) laureati o addirittura con un titolo superiore alla laurea. Nel contempo, la ricchezza italiana nei paradisi fiscali è salita, soprattutto dal 2016 in poi, a 197 miliardi , il 10,6% del pil nazionale. Così ci informa il libro di Francesco Brioschi e Stefano Paleari, “Talenti e capitali”, che ha come sottotitolo “Simul stabunt, simul cadent”, per dichiarare la stretta connessione tra fuga di cervelli , il cosiddetto brain drain, e fuga di capitali. “Due facce della stessa medaglia perché un paese non attrae talenti se non attrae buoni capitali e viceversa”, spiega l’ingegnere e ex rettore dell’Università di Bergamo, Stefano Paleari, presentando il volume, forte di dieci articoli di studiosi e esperti del mondo dell’economia italiana, venerdì 19 gennaio nell’aula magna dell’università di Firenze, durante un dibattito e una tavola rotonda moderata dalla giornalista della Nazione, Erika Pontini.
Protagonisti dell’incontro, oltre agli autori del libro, la rettrice dell’università fiorentina Alessandra Petrucci, la prefetta Francesca Ferrandino, la rettrice della Scuola Sant’Anna di Pisa, Sabina Nuti, il direttore della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, Gabriele Gori, il presidente e il segretario della Camera di commercio fiorentina, Leonardo Bassilichi e Giuseppe Salvini, il presidente di Confindustria Firenze, Maurizio Bigazzi, gli ex rettori delle università di Firenze e di Bergamo, Alberto Tesi e Remo Morzenti Pellegrini. Presente anche l’amministrazione comunale con l’assessora a università e ricerca, Titta Meucci. Grande assente, la politica che più che materia sua non si potrebbe: “peccato”, era il commento generale non esattamente bonario.
La novità, prosegue Paleari è che se i capitali fuggivano anche prima, i talenti fuggono sempre di più negli ultimi venti anni: “gli stessi, guarda caso, in cui il paese ha smesso di crescere e in cui le imprese lamentano la non crescita di produttività”. Facendo parte, talenti e capitali in fuga, prosegue Paleari, della più generale scarsa attrattività dell’Italia che negli ultimi 20 anni non è cresciuta in nessuno ambito, nonostante “il nostro sistema formativo sia considerato uno dei migliori del mondo”. Tanto da rendere i talenti nostrani ben appetitosi sul mercato internazionale che raggiungono presto, “essendo liberi di andarsene all’estero e sconsigliati a restare da vari fattori, principalmente la scarsità e la discontinuità del turn over, la lentezza dei percorsi di carriera, i salari che invece di salire si deteriorano, pur essendo già fin dall’inizio tra i più bassi d’Europa”.
Un vero regalo i talenti che fuggono, è la teoria del libro: da parte dell’Italia a paesi dove la tradizione anglosassone fa sì che la formazione sia soprattutto a carico dei privati, mentre qui è totalmente a carico del pubblico che forma personale senza averne nessun ritorno. Con l’unica trovata adesso di offrire ai fuggitivi un rientro sul tappeto di velluto, “creando – sottolinea il professore – una specie di eterogenesi dei fini perché incentivare il rientro di capitale umano senza rimuovere le ragioni che ne hanno determinato l’esodo, si traduce in una perdita anche maggiore a quella di assenza di incentivi” . In soldoni, se si danno gli incentivi non per restare, ma per tornare, si rischia di moltiplicare la schiera di chi fugge in virtù dei maggiori vantaggi di chi resta.
Non possiamo consolarci neanche dicendo chi va e chi viene: in un mondo sempre più mobile, la fuga di cervelli dall’Italia non viene compensata da altrettanti cervelli da fuori. “Tutte le società producono degli stranieri, ma ciascun tipo di società produce il suo proprio tipo di stranieri” scrive in un dei dieci articoli raccolti del volume, Laura Zanfrini citando Zygmunt Bauman. Alludendo a un’immigrazione verso l’Italia sopratutto di lavoratori low skill, di basso profilo, con stipendi bassissimi e conseguente marginalità sociale, ben lontano dalla talent immigration di Usa e Canada. La spiegazione, suggerisce “Cervelli e Capitali”, è che in Italia “ prevalgono difficoltà di inclusione e sottoccupazione e, se mai arrivino talenti da fuori, gli si offrono spesso solo lavori assai meno qualificarti di quanto siano loro”.
Stesso discorso per gli studenti internazionali. La facilità di movimento ha fatto triplicare in 20 anni il numero di studenti e ricercatori internazionali ma, mentre Francia e Germania ne attraggono più di quanti escano, l’Italia ne attrae il 3% e ne esporta il 4%, pari solo alla Grecia. Gli studenti arrivano qui da Cina, India, Iran e Pakistan e dall’Italia vanno nel Regno Unito, in Germania e Austria. Alla fine, meno del 15% degli studenti internazionali si ferma da noi dopo che li abbiamo laureati a spese pubbliche, contro il 60% di Canada e Germania e il 40% di Francia e Giappone. Quanto a ricercatori, l’Italia vanta il record, con l’India, dell’esportazione: negli ultimi 10 anni se ne sono andati in 239 mila contro gli 82 mila che sono venuti.
Eppure nonostante tutto, le imprese del “quinto capitalismo” resistono considerano gli autori del volume, specie robotica, meccatronica, biomedicale, space economy, e il Pnrr può favorire gli investimenti. Purché la “testa” di queste aziende resti in casa, si auspica. Mentre invece, sono le conclusioni, cresce la perdita di cittadini formati in Italia con risorse pubbliche e non cresce l’immigrazione di talenti, la denatalità (meno 30% dal 2008) è essa stessa una potenziale perdita di cervelli. Quanto alla ricchezza, il risparmio è in calo eppure ancora consistente, salvo però che gli investimenti vanno direttamente o indirettamente al debito pubblico (900 miliardi tra banche e assicurazioni e 300 diretti). Mentre il sistema industriale italiano, pur essendo secondo in Europa, non genera un sistema di retribuzioni pari a quelle dei concorrenti, brutalmente paga assai meno i i suoi talenti. Gli investimenti esteri sono assai minori che in Francia o Germania perché “la vera libertà economica di basa sulla certezza del diritto e sui tempi di attuazione”.