-> di Enrico Bolognini per StampToscana.it
Il bello dei supereroi è che tra storie leggere e rassicuranti, fatte di personaggi-giocattolo e categorizzati, non sai mai quando e quanto ti sorprenderanno. Infatti ci si potrebbe aspettare capovolgimenti cataclismatici ed intrecci innovativi e rivoluzionari ogni qual volta vediamo accostati nomi altisonanti del mercato dei fumetti al più inutile dei vigilanti in calzamaglia, o un concept più ardito del solito, ma nel vasto mondo di Superman & co. non è così.
Non più, almeno e sicuramente dopo la rivoluzione Marvel degli anni ‘60 e tempo dopo con la British Invasion, che portarono approfondimenti psicologici e sociali in storie che, tutto sommato, già stavano crescendo, ispirandosi ai concetti base che diedero vita al genere (basti sfogliare qualche numero del Flash e Green Lantern DC Silver Age antecedenti alla Casa delle Idee).
Ed è così, che oggi, ormai digerite e rigurgitate più volte quelle ed altre focali lezioni, possiamo addentrarci nella più inutile serie supereroistica, edita palesemente per far ciccia, pensata più per motivi di forza editoriale, per invadere più fette di mercato possibile (cioè più di altre) e nonostante ciò, essere piacevolmente sorpresi da svolte coraggiose ed inaspettate. Forse, proprio perché sottostimiamo il prodotto, il piacere è ancora più gradevole, ma il risultato è quel che conta e, se una storia entusiasma, è già grande.
È quel che è accaduto leggendo Superwoman 3 in Universo DC Rinascita Wonder Woman 11, edito da RW Lion, dove le avventure di una potenziata Lana Lang, amica d’infanzia del più celebre Clark Kent, sono sfumate in un manifesto di giustizia sociale che non ha nulla da invidiare a novelle più complesse firmate da Alan Moore e soci. In questa avventura tipicamente fantascientifica si palesa un pensiero, grazie a quel Phil Jimenez che a suo tempo rese grande la Principessa Amazzone dopo i fasti di Perez, su un argomento delicato e spesso incompreso proprio da quell’uomo comune di cui Superman vuol esser protettore e rappresentante. Una piccola ed intensa riflessione sull’eredità del supereroe più famoso del mondo e sulla condotta che si dovrebbe tenere quando si porta un simbolo come il suo.
L’attenzione del lettore viene dirottata su una tematica che, molto probabilmente, giudicando dagli analfabeti funzionali che popolano la rete, i bar e i bus, egli stesso non considera rilevante: il maltrattamento dei detenuti. Se siamo fortunati, chi si troverà davanti queste pagine, avrà una sorta di catarsi inversa in cui assaporerà la frustrante sensazione di subire violenze e soprusi per il semplice fatto di appartenere ad una categoria invece che ad un altra. Un “razzismo” di stati sociali in cui gli uomini liberi sottomettono gli uomini che momentaneamente, o permanentemente, non lo sono più, in cui delle autonominate “sentinelle della libertà” percepiscono come sacrosanto il diritto di togliere ogni dignità a chi, ha sbagliato, certo, ma sta già pagando, in una dinamica che disintegra ogni possibile speranza di rieducazione e reintroduzione nella società civile, unica reale soluzione in un regime che voglia esser sinceramente democratico.
Se siamo fortunati, appunto, il comprensibile viziaccio d’immedesimarsi più nei “cattivi” che negli eroi, per una volta, potrebbe far gioco ed aiutare alla comprensione della massima biblica (e ahimè più che vera e attuale) “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. L’esperienza, però, mi insegna che, nonostante tutto, se c’è da imparare o raccogliere nozioni positive, l’individuo X in mezzo alle masse tende sempre ad allontanarsene: perché, se è appassionato di nemesi o eroi con superproblemi proprio per vicinanza alla fallibilità ed imperfezione di queste figure narrative, nel momento in cui queste sostituiscono il granitico cavaliere senza macchia e paura, pur mantenendo le loro affabili caratteristiche, il suo cervello ne respingerà ogni contenuto, come se proiettasse una campana di vetro di coluana memoria, isolandolo da ogni cosa che non rispecchia la propria programmazione.
La speranza che leggendo quelle letteratura disegnata si possa provare almeno un po’ di compassione – nel senso migliore del termine, cioè di riuscire a provare la stessa passione – verso folli ammassi di scorie nucleari viventi dal teschio fiammeggiante e omicida, non così distanti da noi nel provare quel dolore che spesso, sì, hanno inferto senza alcuno scrupolo, ma che in quel momento non hanno che gli stessi occhi da bambini smarriti delle loro vittime, vi è, sempre. Per quanto crudeli siano questi villain scopriamo forse un male ben più inquietante nell’arrogante violenza di cui sono vittime: facile per dei secondini fin troppo zelanti approfittarsi di chi, di fatto, non è più in grado di difendersi e girare più del necessario quel coltello nella piaga di cui stringono ben saldo il manico.
Di fronte a ciò ci si dovrebbe chiedere chi sia realmente il criminale, chi trasgredisce le regole, o chi contribuisce ad aumentare la natura ribelle ed ostile di certi soggetti, o quale crimine sia più grave se c’è chi si nasconde nell’accogliente manto della legalità per sfogare gli istinti più bassi ed egoistici senza il coraggio di viverne al di fuori. Non è questa legge del taglione che rappresenta la Casata di Kal-El, ma la salvaguardia di tutte le vittime, la capacità di perdonare al fine di educare e di sublimare il meglio da ogni persona. Come ci ricorda un altro buon eroe di Metropolis, l’afroamericano ed ingegnere John Henry Irons, in arte Acciaio: “L’azienda di Luthor sta riempiendo la carceri non per schiacciare il crimine, ma per fare soldi. Non importa quanto depravati siano i detenuti, non è qualcosa che un Superman farebbe. E non è qualcosa che una Superwoman dovrebbe mai accettare.”
Sì, perché l’affollamento delle carceri è un altro bel problemino dei nostri tempi di cui sempre meno spesso si sente parlare, poiché aiutare i detenuti, chi ha sbagliato, non ha mai portato troppi voti. Nonostante sia un punto cardine della nostra educazione cristiana, nonché Costituzionale, non ha mai avvicinato il politico di turno al popolo e capisco, perciò, se le campagne elettorali non ne fanno una bandiera. Ma la questione rimane e non migliora.
Per questo confido in una tenue speranza tra i sogni di carta stampata che, per una volta, riescano a far breccia nell’impenetrabile animo dei più, laddove istruzione scolastica e familiare han fallito, ma non posso evitare di esser realistico e so che continueranno a tatuarsi S in pentagoni diamantiformi, a sbandierare la fede dell’ultimo figlio di krypton, andando allegramente “a comandare in cabina elettorale” per il Salvini di turno.
Non è un caso, a mio parere, che, nel 1992, Superman sia morto e che la sua dipartita abbia coinciso con l’inizio del nuovo degrado delle democrazie occidentali.