Sull’uso politico della storia: affinità e divergenze tra i compagni reggiani e noi

Figure come Morelli, Dossetti e Matteotti fanno ancora discutere gli storici e la politica

Reggio Emilia è quella singolare città, “ultima provincia dell’impero” com’ebbe a dire qualcuno, in cui, anno più anno meno, è dai primi anni ’90 che il dibattito storico-culturale, se proprio non è morto, non brilla certo per vivacità. Vuoi per un malcelato fastidio che l’immutato potere locale lascia trasparire per chi osa eccepire, pur in un contesto di legittimità dialettica, vuoi per una certa qual conseguente propensione dei rappresentanti di quel mondo chiamato o addirittura pagato teoricamente per pensare, ad appiattirsi sull’andazzo generale a suon di slogan di chi tiene pur sempre famiglia. Non ci scandalizziamo, tutto il mondo è paese.

L’eloquente e storicamente corretto titolo, “Solo”, del romanzo biografico dedicato dall’ex segretario del Partito socialista italiano Riccardo Nencini a Giacomo Matteotti

Prendiamo ultimissimi esempi, pescati in ordine sparso in una moltitudine di occasioni sprecate, suggeriti dalla recenti cronache librarie e convegnistiche cittadine. Giorni fa lo storico Mirco Carrattieri, reggiano, direttore generale dell’Istituto “Ferruccio Parri” di Milano, ha postato l’invito a leggere un recente volume di Marta Busani sulla storia del giornalista partigiano Giorgio Morelli, detto il Solitario, cattolico, il primo ad entrare, il 24 aprile ’45, nella Reggio liberata dai nazifascisti, il quale dopo la Liberazione, diede vita alla “Nuova Penna”. Nella rivista denunciava il clima di omertà in cui era caduta la provincia a proposito di un nugolo di delitti politici, insabbiamenti, depistaggi commessi dai comunisti locali, specie a proposito del suo miglior amico, il Comandante partigiano Azor, Mario Simonazzi, cattolico, ammazzato ad opera di un gruppo di partigiani quasi certamente legati al Pci. Delitto che cade nella Pasqua del ’45. Espulso per questo dall’Anpi dal presidente nonché capo partigiano Didimo Ferretti “Eros” e bollato da taluni quale “nemico del popolo”, Morelli fu vittima a sua volta di un agguato, il 27 gennaio del ’46, mentre rientrava in bicicletta nella sua casa di Borzano di Albinea. Morirà un anno e mezzo dopo in conseguenza delle ferite riportate nel vile attentato. Insomma una figura titanica e per la quale, a modestissimo modo di vedere dello scrivente, ci sarebbero i presupposti per chiedere l’apertura del processo di beatificazione. In senso letterale, cioè canonico.

Giorgio Morelli (a sinistra), albinetano e cattolico, fu il primo partigiano a entrare a Reggio Emilia il 24 aprile 1945. Morì due anni dopo, a 21 anni, per le conseguenze delle ferite rimediate in un attentato che gli aveva teso nel gennaio 1946 un commando di sicari comunisti

Orbene, tornando ai giorni nostri, sotto il post di Carrattieri, cui va dato merito di cercare coraggiosamente di operare con un minimo di libertà, a volte “condizionata” da elementi diciamo così ambientali, a proposito del Solitario, qualcuno scriveva “figura controversa”. Sì avete capito bene. La “figura controversa” sarebbe quella del partigiano giornalista, vittima di un tentativo di omicidio. Non quei figli di buona donna che hanno cercato di farlo fuori, riuscendoci, perché scriveva la verità poi emersa nel corso del processo per la morte del Comandante Azor.

Un altro esempio è stato il convegno che si è tenuto sabato 29 novembre presso la biblioteca di Albinea, dove la donazione al comune pedecollinare della collezione completa dei numeri della rivista “Cronache Sociali” edita da Giuseppe Dossetti tra il 1947 e il 1951 è passata purtroppo sotto silenzio. Anche qui protagonisti un gruppo di studiosi di tutto rispetto, e chiusura del buon Carrattieri, già citato più sopra, che ha ricordato come Giuseppe Dossetti non fosse affatto pacifista, almeno nel senso che diamo oggi a questa parola. All’epoca il politico reggiano, poi diventato monaco, degnò di ben poca considerazione i “Partigiani per la Pace”, ovvero il movimento sedicente pacifista contrario alla nascente NATO che, come confermarono successivamente gli archivi dell’ex URSS, era totalmente eterodiretto da Stalin. Dossetti in un primo tempo cercò di ostacolare, come è noto, l’ingresso dell’Italia nella NATO, ma “Critiche Sociali” teorizzava il “neutralismo armato”, proprio per distinguersi dai cosiddetti pacifisti che invece la rivista bollava come “neutralisti disarmati”. L’autonomia dell’Italia dagli USA auspicata da Dossetti, insomma, non poteva non passare per il riarmo del nostro Paese. Sarà forse per questo che i big dossettiani reggiani, come ad esempio Graziano Delrio, da tempo schierato su posizioni ireniste piuttosto critiche sul sostegno dell’Italia alla martoriata Ucraina aggredita dalla Russia di Putin, al seminario di Albinea non si sono fatti vedere.

Discorso diverso e più articolato meritano invece le celebrazioni in extremis (il centenario dell’assassinio da parte dei fascisti è caduto il 10 giugno scorso) della straordinaria figura di Giacomo Matteotti, officiate a Reggio Emilia da Istoreco, Anpi e Federazione Anarchici in collaborazione con l’amministrazione comunale. Si tratta di un evento che racchiude importanti elementi di novità per Reggio Emilia. Matteotti, che era un socialista riformista, per tutta la sua breve ma intensa vita, e anche dopo, insieme a Filippo Turati fu bollato dai comunisti e dai massimalisti con gli epiteti più sprezzanti. Oltre al celeberrimo “pellegrino del nulla” con cui lo catalogò, già morto, Antonio Gramsci, “socialfascista” era il complimento più gentile che Togliatti e i vertici del partito comunista furono capaci di riservare ai leader del socialismo riformista.

Arturo Bertoldi, presidente di Istoreco e dirigente di Iren, uno degli illustri organizzatori del convegno su Matteotti, seguito dall’immancabile luculliana cena al circolo Arci La Paradisa di Massenzatico

I massimalisti odiavano Matteotti con la stessa intensità con la quale i braccianti del Polesine lo amavano. Non stiamo qui a ripercorrere le fratture avvenute a sinistra tra il 1900 e il 1924. Il primo grande scontro fratricida Matteotti lo ebbe al Congresso socialista del 1914 con il capo della corrente massimalista dell’epoca, il potente direttore de “L’Avanti” e numero 2 del partito, tale Benito Mussolini, che da allora nutrirà un odio profondo per quel giovane figlio di papà con l’aria da professorino. Ci limitiamo a ricordare la risposta che Matteotti diede, poche settimane prima di essere ucciso, al dirigente comunista Angelo Tasca, il quale, dopo anni di ostracismo imposto dai Bolscevichi, lo invitava, sempre su sollecitazione di Mosca, che nel frattempo aveva impartito il più classico dei “contrordine, compagni!”, a formare un’alleanza delle sinistre contro il fascismo. “Lottare a fondo contro il fascismo? D’accordo – rispose Matteotti –  ma in nome di che? Noi vogliamo lottare contro il fascismo in nome della libertà, voi della dittatura. C’è tra noi un dissidio di principio, insanabile”.

Un giovane Matteotti e, accanto, la bara con il suo cadavere nel giorno del suo ritrovamento alla periferia di Roma nel giugno 1924. Mussolini si assumerà ogni “responsabilità storica, politica e morale” del suo omicidio

Va dunque salutato con grande favore il fatto che associazioni e movimenti politici reggiani, che da sempre si identificano con l’area della sinistra radicale, abbiano tributato questo riconoscimento a Giacomo Matteotti, Padre della Patria ed eroe antifascista, 100 anni dopo il suo assassinio, che suo malgrado lo rese famosissimo e lo trasformò in una leggenda in tutto il mondo libero. Significa inequivocabilmente che anche a Reggio Emilia le fatwe scagliate un secolo fa contro i “socialfascisti” come lui e Turati da Gramsci e Togliatti hanno definitivamente perso efficacia e non sono più in vigore.

Certo, è abbastanza curioso che a Reggio le celebrazioni matteottiane si siano svolte senza la partecipazione dei legittimi e riconosciuti eredi del suo pensiero, ovvero i socialisti, che, benché anche nella nostra provincia siano rimasti in pochi, nel loro piccolo si sono giustamente arrabbiati e pure parecchio. Ma non entriamo nelle “beghe” tra i partiti e le sigle della sinistra locale, passiamo oltre.

Un aspetto abbastanza anomalo è rappresentato dal fatto che a organizzare il cuore delle celebrazioni matteottiane reggiane, la mostra nella sala ex ACI di via Secchi, siano stati chiamati gli anarchici, con ampia delega e collaborazione delle altre associazioni. Al riguardo non sarebbe corretto dire che i socialisti riformisti e gli anarchici fossero politicamente antitetici: di sicuro però erano molto lontani. Gli anarchici i re li facevano saltare per aria, per Matteotti invece il cambiamento sociale doveva avvenire gradualmente, lottando dentro le istituzioni. Se rileggiamo il celebre discorso tenuto da Turati nel 1921 al Congresso di Livorno, che sancì la frattura dei socialisti e la nascita del Partito Comunista, è quasi interamente dedicato al rifiuto della violenza. Dentro questo rifiuto Turati cita esplicitamente gli anarchici, che dell’abbattimento violento del potere avevano sempre fatto la loro bandiera, e torna al congresso socialista del 1892 che aveva sancito proprio la rottura tra i socialisti e i seguaci di Bakunin, un altro che, se c’era da menare le mani, era sempre il primo a buttarsi nella mischia. Insomma, non sappiamo se c’entri il karma, fatto sta che a Reggio il compito di riscoprire l’attualità e l’immortalità del messaggio di Giacomo Matteotti, un socialista ostile a ogni velleità rivoluzionaria, è stato assegnato agli anarchici, cioè alla formazione che incarna da sempre una delle ali più intransigenti della sinistra.

Il Presidente Sergio Mattarella e la Premier Giorgia Meloni hanno solennemente commemorato alla Camera Giacomo Matteotti, “martire della democrazia”

La mostra inaugurata sabato 7 dicembre in via Secchi in un clima glaciale, nel senso che fuori c’erano zero gradi e il riscaldamento era o spento o rotto, merita senz’altro di essere vista, perché raccoglie interessantissimi cimeli (fotografie, libri, bandiere, ecc.) degli anni compresi tra il 1920 e la fine degli anni ‘40. La vernice ha richiamato un folto pubblico, in buona parte formato da simpatizzanti dell’anarchismo. E’ intervenuto anche il neo assessore alla cultura Marco Mietto, apparso piuttosto spaesato: ha esordito dichiarando di non conoscere bene Matteotti (sic). La mostra, pur essendo una tutt’altro che banale wunderkammer di reperti antifascisti, tuttavia è un po’ frammentaria e priva di un vero filo conduttore attorno al personaggio, Matteotti, appunto, alla quale è intitolata. Manca probabilmente, benché al suo allestimento abbiano collaborato Palazzo Magnani e i Musei Civici di Reggio, la mano di un curatore professionista. Infatti è stata messa assieme, con encomiabile sforzo, ma forse con non sufficiente rigore metodologico, da Gianandrea Ferrari, noto attivista anarchico reggiano.

Amerigo Dumini, il picchiatore che guidò la squadraccia fascista che rapì, seviziò e uccise a Roma il 10 giugno 1924, il parlamentare socialista Giacomo Matteotti. Ai tempi del regime mussoliniano, era solito presentarsi dicendo: “Piacere, Dumini, 9 omicidi”. Arrestato nel 1945, condannato prima all’ergastolo e poi amnistiato a 30 anni di galera, uscì definitivamente dal carcere nel 1956 e si iscrisse al Movimento sociale italiano. E’ morto nel 1967

Il quale ha poi spiegato, in sede di presentazione, che la mostra, come recita il suo sottotitolo, è in realtà una storia di “resistenti e resistenze”, termini che vengono più o meno liberamente usati in questa circostanza come sinonimi di antifascismo. Dunque prende il via dall’assassinio di Matteotti per attraversare il Ventennio e arrivare fin dopo la Liberazione. Per Ferrari, secondo un’interpretazione cara sia alla corrente secchiana del partito comunista che a tutte le sinistre extraparlamentari, la Resistenza è stata “tradita”. Ma il titolo è fuorviante. In realtà la mostra si concentra soprattutto su un periodo molto circoscritto, la seconda metà degli anni ‘30, e sulle attività antifasciste delle formazioni laiche, repubblicane, socialiste e anarchiche, in particolare in Francia e nella guerra civile spagnola. L’allestimento, con una simile scelta di campo, relega inevitabilmente in un ruolo marginale i cattolici e gli stessi monarchici (Beppe Fenoglio, una delle figure più epiche della Resistenza, votò contro l’abolizione della monarchia al referendum del 1946, poi si avvicinò a socialisti e socialdemocratici). Con alcuni effetti bizzarri: è citato lo steineriano Adriano Olivetti, il cui antifascismo fu decisamente anomalo, visto che nel 1937 prese la tessera del PNF, ma non c’è Don Luigi Sturzo. E lascia sullo sfondo il ruolo assolutamente determinante giocato dai comunisti nell’opposizione al fascismo sia durante il Ventennio che nella guerra di Liberazione. Il che è comprensibile, perchè nella guerra civile spagnola gli anarchici e i comunisti si sparavano, si ammazzavano tra loro, invece di concentrare le energie contro il comune nemico franchista.

Una foto straordinaria: Carlo Rosselli ed Emilio Lussu il 27 luglio 1929 in fuga via mare dall’isola di Lipari dove il fascismo li aveva condannati al confino

La mostra quindi apre un terreno di indagine e approfondimento sui rapporti intercorsi negli anni ‘30 tra gli anarchici e gli esponenti di Giustizia e Libertà, durante il lungo esilio forzato a cui furono costretti gli antifascisti italiani. Ad esempio sul ricco carteggio tra Camillo Berneri e Carlo Rosselli, che a dire il vero fu però piuttosto polemico e non portò a un terreno di incontro comune tra anarchici e Giellini. E’ un argomento sicuramente interessante quello dei rapporti tra Giustizia e Libertà e gli anarchici, ma anche troppo limitato per rappresentare in maniera adeguata la lotta di quel pezzo di Italia che si oppose al fascismo. La mostra comunque ci consegna indirettamente due rilevanti messaggi, che vanno sottolineati. Ovvero, se il compito di allestire un evento come il centenario reggiano di Matteotti è stato assegnato agli anarchici, significa che gli eredi reggiani del Partito Comunista (che a Reggio, come dimostrano le incessanti celebrazioni berlingueriane, ha molti nostalgici) su Matteotti non hanno più molto da dire, a parte forse porgere doverose scuse postume per il trattamento ingeneroso e settario che il Partito Comunista ha a lungo riservato a lui, a Turati e allo stesso Camillo Prampolini. Il secondo messaggio, speculare al primo, è che a Reggio Emilia, la terra delle feste dell’unità e dell’eterno partito piglia-tutto, su Matteotti, un personaggio di prima grandezza nella storia della sinistra e del nostro Paese, oggi si affermano la lettura, l’interpretazione e il punto di vista di una forza da sempre minoritaria e storicamente alternativa ai comunisti, ovvero gli anarchici. Per la nostra città è una piccola rivoluzione, o meglio, visto che siamo in tema di revisionismi, una controrivoluzione. 

La mostra “Giacomo Matteotti, resistenti e resistenze 1924-2024” resta aperta fino a febbraio ed è visitabile il sabato e la domenica negli orari 10-13 e 16-19.

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