Storie di migrazioni “sui generis” (ma non troppo)

Immigrati: partito corteo a Castel Volturno, 'Stop Razzismo'

Diciamo per esempio che un soggetto X, per semplificare assunto di sesso maschile (gli uomini in quanto tali sono già più semplici, giusto?) decida, per ragioni sue di convenienza, di lasciare il Paese in cui è nato e risiede per approdare ad un altro. Possono essere ragioni culturali: la visione sociale della nazione in cui vive gli sta troppo stretta, ad esempio, magari non collimando con gli ideali di libertà e democrazia che spirano da libri che ha studiato, o da voci che girano negli ambienti colti della sua patria. O magari, ragioni economiche: forse ha una visione di se stesso in quanto persona in grado di essere altamente produttiva, e nell’ambiente in cui vive non gli è data la possibilità di trovare una nicchia di mercato per le sue particolari abilità, perché siano redditizie. O forse, la moneta in cui lo pagano è debole, oppure lo pagano con troppa poca moneta per lo sforzo che si sente in grado di offrire. Magari, ha una visione del mondo del lavoro talmente avanzata e determinata che il tessuto sociale nel quale è immerso non gli consentirebbe mai e poi mai di emergere.
Forse il suo è un Paese nel quale corruzione, nepotismi, appartenenze di scuderia, favoritismi, piaggeria, fedeltà al gagliardetto contano molto più che non l’iniziativa personale, o la bravura, o la preparazione, o la volontà, o la serietà. Forse, si è innamorato di una idea differente di libertà politiche: vuole poter andare in giro a testa alta parlando delle proprie idee, partecipare alla vita pubblica senza essere per questo biasimato o mobbizzato, vuole poter scioperare quando le condizioni lavorative non gli consentono di ottenere un giusto salario. Vuole poter esprimere le proprie critiche al governo in tono costruttivo e piano, senza rischiare rappresaglie. Desidera un diritto all’istruzione moderno e degno di questo nome, che lo metta in grado di allargare la propria cultura e di fornirgli armi contro l’ignoranza dilagante e asfittica della sua società; desidera una copertura sanitaria e assicurativa adeguata alle mille insidie della vita, desidera magari sposarsi e fare figli e che questi possano andare in giro per strada senza correre il rischio di essere spappolati da un automobilista ingestibile o rapiti dai trafficanti di organi o seviziati o violentati da un maniaco. Desidera vivere in un Paese forte dei suoi costumi e delle sue tradizioni, un Paese che si sente tale in virtù di una storia complessa e dura ed intensa che lo ha plasmato e reso quello che è ora.
In cui si possa tifare per la squadra nazionale sentendosi fieri, in cui si possa essere orgogliosi del ruolo internazionale giocato dalle diplomazie, in cui si viva sereni e fiduciosi. Allora, questo soggetto X si prende su e racimola faticosissimamente i tanti quattrini richiesti per questa dolorosa transumanza, che i soldi non bastano mai: per il viaggio, per i documenti, per i beni con cui iniziare un nuovo progetto di vita. In tutto questo è frenato dalle mille peripezie della propria burocrazia, un mostro apparentemente imbattibile; ma lui è duro e resistente, e a prezzo di molti sacrifici, e anche di qualche concessione alla sua integrità morale, dovendo rendersi complice di qualche sotterfugio tra mazzette, regalini, mance per accelerare e rendere possibili le tante pratiche – e possibili in tempo umanamente utile – alla fine ce la fa.
Si mette in viaggio: un viaggio lungo e scomodo, assieme a tanti suoi connazionali nei quali peraltro, data l’eterogeneità dei soggetti del suo Paese e dei motivi che possono portare ad emigrare, non si riconosce neppure granché. Stringe qualche piccola amicizia di viaggio, diciamo: di quelle nate dalle difficoltà dello spezzare il pane sulle ginocchia – non a caso, la parola “compagno” viene da “cum panis”, qualcuno con cui spezzi il pane; e in altre lingue significa espressamente “compagno di viaggio”. Poi, la frontiera, le mille difficoltà burocratiche del Paese in cui arrivi, il sospetto, lo scherno, la sensazione di essere considerati indesiderati e invadenti quando non invasori, insomma: alla fine, anche qui peggio di un cilicio, ma si passa. Diciamo poi che il soggetto X si metta a cercare casa e lavoro, vedendosi sbattere la porta in faccia non una, non tre, ma trecento volte; vediamolo finire con l’adattarsi ad abitare con suoi connazionali coi quali fino a ieri non avrebbe manco rivolto il saluto, perché uno di questi, generosamente, essendo riuscito ad affittare una stamberga da un tizio chiaramente nel business dell’affitto agli stranieri, è più che disposto a subaffittargli un posto letto, o un divano, oltremodo pretendendo di qui un avanti una specie di senso di fratellanza imposto che il nostro soggetto si toglierebbe di dosso con brusca e striglia; perché lui voleva diventare altro da quello che era al proprio Paese, e qui invece il suo Paese lo segue dappertutto come un cattivo odore inguinale. Diciamo anche che, grazie all’intervento di un altro bravo faccendiere, riesca a trovare una occupazione in fabbrica; un lavoro su turni massacranti, retribuito non generosamente ma il giusto, ecco, che facendo molte economie magari si può mettere qualcosa da parte, oltre a quello che si manda a chi è rimasto a casa: un po’ per dovere, un po’ per dimostrare che espatriando le cose tutto sommato sono andate bene, che aveva ragione nel volerlo fare.
A questo punto il nostro soggetto X, che non manca di intelligenza né di senso della prospettiva, capisce di non essere finito dalla padella nella brace: peggio. Si trova in una condizione di isolamento culturale che la sua evidente origine etnica, la mancanza di una conoscenza adeguata della lingua e la mancanza di contatti pregressi sui quali poggiarsi, rendono particolarmente invalicabile. Le donne del luogo non se lo cacano di striscio, gli edicolanti gli vendono il quotidiano sportivo con la faccia di chi ti chiede se non sarà troppo difficile per te da leggere, i datori di lavoro lo trattano con la condiscendenza che si riserva ai bambini, ai sordi, ai vecchi e, appunto, agli immigrati; un contratto di lavoro dal quale discende la tua possibilità di restare nel Paese in cui sei perché, con cadenza pluriquotidiana, ti ricordano che non sei un cittadino ma un ospite, e nemmeno tanto desiderato. Tacendo con levità sul fatto che hanno bisogno loro di te tanto quanto tu di loro, naturalmente. Alla fine, reagisci a questo isolamento culturale nel solo modo che hai a disposizione: attaccandoti alla tua identità precedente, l’unica che ti è consentita e che magari finisce col consistere solo degli stereotipi che la contraddistinguono: musica di casa tua, donne di casa tua, cibo di casa tua, religione di casa tua, abiti di casa tua, giornali di casa tua, in una spirale di crescente isolamento che a questo punto però senti pesare un po’ di meno perché ti illudi che sia una tua scelta, per quanto compiere una scelta e imporsi qualcosa possano essere sinonimi intercambiabili.
Naturalmente, a questo punto ti diranno tutti che rifiuti la cultura del Paese che ti ospita e te lo rinfacceranno; al che tu, non sapendo cosa altro fare, potrai scegliere se protestare istericamente e senza costrutto, chiuderti in un silenzio ostile oppure sprofondare ancora di più negli stereotipi dai quali volevi fuggire. Diciamo che alla fine, stanco di tutto quello che stai subendo, decidi che il gioco non vale più la candela; svendi quello che hai faticosamente guadagnato, abbandoni quel po’ di vita che avevi, rifai i documenti – faticosamente, perché non ti vogliono mai lasciar entrare ma poi per uscire paghi pegno – e te ne torni ad una casa che non solo non è più tua, ma manco lo è mai stata; il suolo è quello sul quale sei nato, ma sei partito straniero ad esso e vi torni ancora più straniero di prima. Oltretutto deluso da te stesso e tradito in quegli ideali che pensavi avresti potuto sviluppare altrove, e che invece hai capito essere solo di facciata: riservati solo agli utenti Gold, per dire. Così, ti risistemi faticosamente e riprendi la tua vita – peggio di prima – in Italia. Ah, sì, in Italia: che credevate, che fosse la solita storia di quelli che arrivano col barcone? E su, un po’ di serietà, mica che quelli hanno il monopolio della rogna, eh.
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