Storia di un quadro: viaggio sul filo della memoria

Un’oleografia dal tema sacro suscita un’onda di ricordi e di riflessioni

Tali sono gli abissi della storia: tutto vi giace alla rinfusa e, se si cala lo sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso di orrore e di vertigine.
Winfried Sebald, Storia naturale della distruzione

E’ stato qualche tempo fa. Quando sono tornato nelle soffitte della casa materna.
Come si faceva da ragazzi durante le vacanze estive, nel paese dove sono nato. Un rito, che si celebrava prima ancora di uscire di casa allorché si varcava quella porta e si imboccava la scala di mattoni consunti che pareva levarsi al cielo. Era il posto dove ripararsi, dove ascoltare il battere della pioggia sulle tegole di terracotta, dove godere della solitudine. Ma era soprattutto dove aggirarsi per le anguste stanze alla ricerca di qualcosa che nessuno di noi si è mai chiesto se non il piacere di riscoprire l’immutata memoria di quegli spazi e di quegli oggetti. Come se la polvere del tempo li preservasse dal naturale divenire della vita.

Sapevamo di ritrovare la carrozzina della nostra infanzia, il cavallo a dondolo, i residui farmaceutici di alambicchi e ampolle, i vecchi trattati di farmacologia del nonno speziale, la grande gabbia in legno delle tortore che nostro padre aveva costruito all’epoca della caccia. Sapevamo che nella cassapanca di quercia c’erano ancora la luccicante sciabola, la sciarpa azzurra e il copricapo dello zio, colonnello del regio esercito nella grande guerra. Sapevamo di provare lo stesso identico turbamento di fronte all’enigma del maestoso e tenebroso armadio di castagno scuro, chiuso a chiave, rassicurati dall’immaginare i ripiani colmi di biancheria, di lini e vecchie lavande, merletti e tessuti di batista, tovaglie e scampoli di corredi matrimoniali. Sapevamo anche che di ciò che non c’era più, il canterano di noce con il piano di marmo e la specchiera o la piccola raccolta di romanzi della Delly che la nonna custodiva in un biscanto dove si rifugiava nei pochi momenti di libertà, restava comunque al suo posto l’immagine che si era impressa nelle nostre fantasticherie.

Ma ora le soffitte sono spoglie, tranne qualche scatola di cartone e alcuni residui di cornici appoggiate alla parete. Seppure, proprio spostandole, è venuto allo scoperto, in un giorno d’inverno, un quadro impolverato, una oleografia incorniciata di legno nero, che mi ha riportato al tempo in cui quel quadro era appeso alla parete della camera dei nonni, alla
testa del letto di ferro che troneggia ancora oggi in quella stanza. Il suo ricordo mi trasmette un senso di calore, che memoria e immaginazione riempiono di valori come riparo, protezione, intimità. Gli oggetti che la popolavano sono sempre gli stessi: i comodini, l’armadio, la toilette, il divanetto di vimini alla pediera del letto.
Quanto volte, adolescente, mi sono steso, nel silenzio dei meriggi estivi, tra quelle pareti con lo sguardo verso il soffitto di legno dipinto! Che non erano più pareti ma distese di boschi e di prati e il soffitto non era più un soffitto ma uno squarcio di cielo, dove fantasia e sogno volavano senza freni.

Penso ora a quel quadro che ho provveduto a restaurare e a riportarlo dove un tempo si trovava. Penso al suo contenuto religioso e alla funzione che doveva assolvere, di segno di devozione ma anche di preghiera e di conforto: Gesù nell’orto dei Getzemani, che prega in attesa che si compia il suo destino. La luna che spunta, offuscata in parte dalle nuvole. Il paesaggio di cipressi che, nell’oscurità, pare lo specchio muto di ciò che il Padre ha già stabilito.

Pensavo, anche, di aver assolto al doveroso compito di ristabilire l’ordine delle cose ma soprattutto di comprenderne il senso, fino a quando non mi sono imbattuto in un libro di Winfried Sebald, la Storia naturale della distruzione, dove parlando del bombardamento di
Amburgo e delle altre città germaniche durante la 2.a guerra mondiale il grande scrittore tedesco si sofferma sulla casa dei suoi genitori e sull’ immagine del quadro appeso alla parete della loro camera da letto: “un’olegrafia raffigurante, sullo sfondo dell’orto dei Getsemani illuminato dal fievole chiarore della luna, un Cristo di nazarena bellezza immerso nei suoi pensieri la notte che precede la Passione.

Per molti anni questo quadro era rimasto la’ sopra il letto matrimoniale dei miei genitori, finché un bel giorno scomparve – probabilmente quando fu deciso di cambiare la mobilia della stanza“ (1) Un caso? O un ponte tra due mondi così distanti, geograficamente ma anche culturalmente: una cittadina dell’alta Baviera e un borgo della collina maremmana?
Al desiderio di saperne di più si aggiungeva tuttavia un’altra coincidenza. Sullo schermo televisivo di qualche tempo fa scorre la replica di un film statunitense del 1995 : “La giusta causa” di Arne Glimcher. (1) Lo stesso Sebald annota, sorpreso, che «Del resto in Corsica, e precisamente nella chiesa di Morosaglia sovraccarica di polverosi ornamenti pseudobarocchi ho visto qualcos’altro, ovvero…….il quadro appeso nella camera da letto dei miei genitori:…»

Una storia di sangue, ambientata nella calda e umida Florida dove regnano acque stagnanti e alligatori. Nella cittadina immaginaria di Pachoula della contea di Escambia, il protagonista, alla ricerca della verità, si trova a visitare la casa del presunto omicida e, nell’attraversare una stanza cosparsa di oggetti religiosi, vede un quadro con l’identica immagine del Cristo nell’orto dei Getzemani . Nel libro di John Katzenbach, da cui è tratto il soggetto cinematografico, l’autore, allo stesso modo, si sofferma sulla sua descrizione:
“Cowart s’incamminò di nuovo verso la casa, Si avvicinò a una finestra e scrutò l’interno. Tutto ciò che fu in grado di vedere furono dei mobili a buon mercato sistemati in una sorta di salottino. Alla parete era affisso un ritratto a colori di Gesù, completo del tipico raggio di luna irradiante dal capo.”

Forse non è più un caso. Forse questa combinazione di segni, questa relazione di accadimenti vuol dirci qualcosa, o sta per dirci qualcosa. Qualcosa sull’autore? Approfondendo la ricerca scopro che si tratta di una religiosa, Suor Margherita, al secolo Aurelia Passaggi, genovese, vissuta nella prima metà del secolo scorso, appassionata di arte figurativa che coniuga con la missione spirituale svolta principalmente nella Casa conventizia di Campomorone dove ancora oggi si conservano alcune sue opere.Tra queste proprio il nostro quadro, un olio su tela dipinto nel 1926: Gesù nell’orto degli ulivi. Ma c’è di più.

Guardo ancora una volta il quadro. Una storia universale. Una storia senza tempo. Ma non senza luogo. Il Luogo per eccellenza. Il cuore del culto monoteista, la Città Santa.
Cerco di immaginarmi il cammino del Cristo all’approssimarsi di Gerusalemme, «C’era gran folla di suoi discepoli – leggo nel Vangelo secondo Luca – e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone…….Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.»


Non vedo tuttavia mantelli stesi sulla strada, né fronde o foglie di palma. Non odo osanna che si levano dalle moltitudini che si accalcano lungo il tragitto. Vedo piuttosto mezzi blindati con la stella di David, allineati al di là del muro di cemento che circonda i campi profughi di Shuafat e di Anata, Vedo edifici sventrati, vedo migliaia di uomini imprecare, donne che urlano, bambini che vagano tra cumuli di macerie, brani di muri intonacati, saracinesche squarciate, carcasse di auto, pneumatici bruciati, cassonetti e rifiuti dati alle fiamme. Vedo esplosioni di rabbia, lanci di sassi, militari che sparano, cadaveri ad ogni angolo.

Non ci sono voli di colombe ma strisce di fuoco che solcano il cielo. Sciami di ordigni suicidi lampeggiano al sole avventandosi sulle abitazioni e seminando sgomento e disperazione.
Vedo il Figlio dell’uomo fermo al Check-Point di Hizma. «Sei tu il Re dei Giudei?» gli chiedono. Non c’è più il Sinedrio, non c’è più il tetrarca di Giudea Erode Antipa né il prefetto Ponzio Pilato. Ci sarà forse il carcere di massima sicurezza, il tribunale religioso o il tribunale militare, la Corte Suprema.

Lo vedo, per un’ultima volta, sul monte degli ulivi in silenziosa preghiera. Ma ora non implora che il calice di sangue gli sia risparmiato. Sa bene che dovrà berlo!

Come canta il poeta:
Come bere quest’amara bevanda
Sorbire il dolore, ingoiare la pena
Anche se la bocca tace, c’è sempre il cuore,
Non si sente silenzio in città.
A che mi serve essere figlio della madonna
Sarebbe stato meglio essere figlio di un’altra,
Di un’altra realtà meno di morte,
Tanta menzogna, tanta forza bruta…..

(Chico Buarque De Hollanda, Gilberto Gil, Calice, 1978, Versione italiana di Riccardo Venturi, 2010).

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