Storia di Beppe Pratesi, prete operaio “dimenticato”

Firenze – La burocrazia ecclesiastica si è come dimenticata di lui: è stato prete operaio, ha fondato comunità, ha partecipato a lotte sindacali si è sposato e ha avuto cinque figli e da ultimo è stato uno dei protagonisti della attività di volontariato per aiutare persone con disabilità. Eppure nessuno lo ha mai ridotto allo stato laicale e neppure lo ha cancellato dall’annuario dei sacerdoti.

A 90 anni Giuseppe Pratesi, nato a Luco di  Mugello, è il più sorprendente testimone diretto delle esperienze religiose e sociali di una grande stagione della Chiesa in Toscana, che rendono questo territorio così ricco di umanità.

Ci ha pensato Antonio Schina, già autore di una biografia di Bruno Borghi, a raccogliere questa testimonianza in un volume edito dal Centro di documentazione di Pistoia dal titolo “Con tutto l’amore di cui siamo capaci – Il nostro modo di essere preti”. Il libro riporta le conversazioni che Schina ha avuto con Pratesi e la moglie Lucia Frati nella loro abitazione di Rupecanina in Mugello. Attiva nel settore dell’assistenza sociale, Lucia ha condiviso con lui le tappe di una vita fatta di scelte basate solo sul mettersi a disposizione degli altri.

Finora Pratesi non ha mai figurato nell’elenco dei protagonisti. Il suo nome veniva citato insieme a quelli di Lorenzo Milani e di Bruno Borghi in calce alla lettera all’arcivescovo Ermenegildo Florit nella quale si protestava per la rimozione di Gino Bonanni da rettore del seminario maggiore di Firenze. Con il suo predecessore Enrico Bartoletti, Bonanni era stato il punto di riferimento di una generazione di giovani sacerdoti che con grande libertà interiore sono andati alla ricerca di un modo nuovo di essere preti, più vicino allo spirito evangelico. “Bonanni diceva che innanzitutto voleva formare uomini”, ricorda Pratesi.

Era il 1964 e, assommata al suo parlare franco con il vescovo per aiutare suoi compagni di seminario, quella firma gli costò la più periferica destinazione parrocchiale possibile Palazzuolo sul Senio. Dopo una successiva assegnazione a Montelupo fiorentino, dove poté frequentare Renzo Fanfani, altro protagonista del gruppo dei preti operai, decise di essere “una presenza cristiana fra le persone, vivendo la loro stessa vita, con un lavoro e una casa d’affitto”, sempre pronti per coloro che richiedevano i servizi sacramentali.

Con il beneplacito del cardinale lui e Beppe Socci (erano “i due Beppi”) ottennero di utilizzare la piccola pieve di San Michele Arcangelo a Castiglioni, vicino alla Ginestra fiorentina, mentre lavoravano come operai agricoli per l’azienda vinicola dei Frescobaldi: ”Incuriosiva – dice a Schina – che due preti che stavano assieme senza che uno fosse il capo dell’altro e l’altro il servitore fossero lì senza fare propaganda, senza chiusure. L’aspetto religioso era  vissuto soprattutto a livello sociale, alla pari, non come un’istituzione, non con una gerarchia come si faceva noi”.

In molti andavano a trovarli, alcuni di loro restavano in comunità con loro per giorni. Naturalmente le cose non potevano durare. Siamo negli anni dell’Isolotto, della contestazione alle gerarchie, del tentativo di frenare i fermenti che provenivano dalla base. Licenziati dai Frescobaldi, a Pratesi e Socci arrivò l’ordine di chiudere l’esperienza “né lì né altrove né in nessun altro luogo della diocesi fiorentina”. La loro risposta fu: “Il mondo è un po’ più grande della diocesi di Firenze”.

Così decisero di trasferirsi in quella di Lucca dove era vescovo il loro primo maestro Bartoletti, unendosi alla comunità dei preti operai di Viareggio: Sirio Politi e Rolando Menesini. Politi lavorava ai cantieri navali Picchiotti. Pratesi trovò lavoro presso l’azienda di riparazioni ferroviarie Fervet, Socci faceva il pescatore. La comunità del Bicchio aveva come punto di riferimento la chiesa sulla via Aurelia nella località omonima: “Una famiglia strana di preti e laici, uomini e donne”

Oltre alla fabbrica, la comunità disponeva di un’officina per il ferro battuto e di una cappella al piano superiore dello stesso edificio.  Fu in questi anni che Pratesi conobbe Lucia. Insieme, sebbene non sposati,  riuscirono ad ottenere dal Tribunale dei minori una bimba, prima in affido e poi in adozione, la prima dei loro cinque figli: “Condividere il sacerdozio con una sposa non solo non è tradimento o abbandono, ma è viverlo con sensibilità femminile e maschile sotto lo sguardo materno e paterno del Padre”, spiega a Schina: “Io non dico che i preti devono essere sposati , però non sopporto che si continui a vedere la donna come un pericolo, una minorata che distoglie il prete dalla sua vita santa”. Bellissima, fra i documenti proposti nel libro, la lettera che Beppe e Lucia scrissero alla mamma di Beppe. Si sposeranno nel 2013 ad Arcidosso.

Erano gli anni delle lotte operaie per chiedere condizioni di lavoro migliori e Pratesi, come sindacalista della Federazione dei lavoratori metalmeccanici, fu in prima linea soprattutto per migliorare la sicurezza in una fabbrica dove frequente era l’incidente anche mortale.

Esaurita l’esperienza lucchese Beppe tornò alla terra: prima alla Camera del Lavoro di Pisa per rilanciare un’associazione di produttori agricoli, poi dopo altre vicende, nel 1980, in Mugello dove si è impegnato per favorire la creazione di cooperative agricole per giovani disoccupati, coltivando in prima persone tre ettari di terreno ereditati dal padre.

Seguono trent’anni di lavoro duro sul territorio: corsi di formazione in orto-floro-vivaismo per giovani, l’ associazione Astolfo per favorire l’avvio di una attività lavorativa agricola o artigianale per le persone con disagio e l’organizzazione di volontari per il sostegno alle persone con disagio psichico.

La cosa che  colpisce di più l’intervistatore e il lettore è il fatto che Pratesi ha sempre fatto quello che ha voluto rispetto alla Chiesa istituzionale: “Perché mi sono sentito un uomo libero e alla pari, non sottoposto – risponde – E questo coraggio non era un dono di natura, me lo sono trovato addosso, conoscendo Gesù di Nazareth e persone che lo seguivano sul serio. E anche perché non avevo niente da perdere”.

Com’è stato allora possibile che le autorità ecclesiastiche “si siano dimenticati di lui”? Secondo il nostro testimone forse ciò è dovuto al fatto che l’arcivescovo “ha molto usato le minacce ma a parole”. Per esempio Borghi veniva continuamente rimproverato e minacciato, ma poi non succedeva nulla. Erano tanti i preti dissidenti, non sarà che non si prendevano provvedimenti  che avrebbero scatenato ulteriori tensioni e polemiche? Sta di fatto che lui si era cancellato dall’elenco dei preti fiorentini, ma “non si era incardinato” in altre diocesi, per cui restò una sorta di “apolide ecclesiastico”.

Forse anche perché qualcuno voleva che raccontasse di persona, a nome di tutta quella generazione di uomini di fede, i frutti fecondi “di tutto l’amore di cui siamo capaci”.

Foto: Beppe Pratesi e Lucia Frati

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