Firenze – Su segnalazione di alcuni cittadini, e incuriosito da un reportage di denuncia realizzato a maggio scorso da alcuni residenti del Sodo con il centro sociale autogestito nExt-Emerson, Stamp si è recato a “visitare” un’opera quasi surreale: il sovrappasso del Sodo.
Ci si arriva a fatica per Via delle Panche, sul lato del vecchio Istituto Chimico Farmacologico Militare. Confuso tra gli edifici della zona, emerge soltanto quando si imbocca l’ultimo tratto di Via del Sodo, una piccola strada senza sfondo in cui entrano a malapena due file di macchine: una struttura bianca e di vetro che scintilla sotto il sole estivo come un miraggio tecnologico, emergendo improvvisa dalle case sbrecciate che le fanno da contorno e sfondo.
Il sovrappasso pedonale che sovrasta la ferrovia in zona Rifredi ha il proposito di unire i due quartieri del Sodo e del Lippi per rispondere a un’esigenza sentita – si presume – dei cittadini, raggiungere con facilità i due quartieri separati dai binari. Eppure, i suoi locali sono deserti e percorsi da un silenzio angosciante. L’entrata si trova in una costruzione cilindrica e dà su una rampa di scale. Sul muro si legge, a pennarello: “Tu proverai sì com’è duro calle/scender e salir per queste scale/ma quel che più mi fa girar le palle/è quel Matteo che ci racconta balle.” Un Dante rivisitato come segno di protesta per l’ascensore che per la lentezza e a volte la “sosta” forzata persuade molti a ricorrere alle scale. Le scale: 72 gradini dal basso all’alto, impresa titanica per gli anziani, per chi porta magari due borse di spesa, per chi ha fretta di passare.
Il sovrappasso vero e proprio è costituito da un corridoio trasparente in moderno stile architettonico, senza finestre né aperture, spoglio tranne che per qualche scritta con una bomboletta spray: ci si aspetterebbe di trovarlo in un grande aeroporto internazionale, direttamente collegato con il portello d’ingresso del velivolo di turno. Sono le cinque del pomeriggio e il caldo è asfissiante come un’immensa serra a 7 metri dal suolo. In basso, si distinguono con chiarezza gli spazi dei binari sottostanti e i treni che rallentano in vista della stazione – senza alcun suono, dato lo spessore dei vetri.
Più in fondo, dietro un intreccio di cavi e paline, spunta il Duomo nella nebbia dell’afa.
Nessuna presenza umana, tranne la voce metallica dell’ascensore che annuncia che le porte si stanno chiudendo e che si sta salendo o scendendo.
Una volta arrivati dall’altra parte e usciti, ci si trova tra due file di binari: infatti è necessario ancora avventurarsi in un sottopasso malconcio per arrivare finalmente nel quartiere del Lippi.
A un anno dalla sua inaugurazione, le ragioni di questa grande opera appaltata dalle Ferrovie dello Stato, ci racconta uno dei rari passanti incontrato al di là di sovrappasso, sottopasso e binari, quando riemergiamo nel flusso fiorentino, sono già state dimenticate, come la grande opera che emerge, di vetro e di bianco composta, come un monito già invecchiato di un futuro che ha ceduto le armi alla disillusione.