Firenze – La spesa pubblica sale inesorabile: la notizia non è nuova, ma l’interrogativo che ci si pone, vale a dire perché nonostante tagli e sciabolate ad esempio su personale e sanità la spesa pubblica continui inarrestabile, impone che si tenti almeno una piccola analisi del panorama spese. Vale a dire: dove si è tagliato e perché è stato inutile.
Partiamo, forti dei dati riportati dalla Cgia di Mestre, dai numeri: tra il 2010, vale il dire il momento in cui si sono introdotte le prime misure di austerità, e il 2014, la spesa corrente è aumentata di 27,4 miliardi di euro. Limitandoci all’anno scorso, la spesa della macchina pubblica è stata pari a 692,4 miliardi di euro.
Le misure che dovevano scongiurare l’aumento, anzi, avrebbero dovuto ridurre la spesa pubblica sono state prese: la riforma Fornero ha allungato, com’è noto, l’età lavorativa (da segnalare l’intervento dell’Europa in questa decisione), gli stipendi pubblici sono ancora bloccati dal 2010. A proposito di quest’ultimo punto, urge ricordare che, da quando è entrato in vigore, il blocco stipendi PA ha rimpinguato per oltre 11 miliardi di risparmio le casse pubbliche. A fronte, i 3,3 milioni di dipendenti della PA hanno subito un impoverimento di valore sul salario reale di circa il 15%. Ricordiamo inoltre che il governo Letta ha bloccato anche il turn over fino a tutto il 2018, con il conseguente risparmio di altri 5 miliardi di euro.
Ma le misure di austerity non sono ovviamente esaurite: ad esempio, è stata effettuata la centralizzazione degli acquisti pubblici, senza scordare i tagli ai Ministeri, alle Regioni, agli Enti locali e alla sanità. Risultati sulla spesa pubblica? Intanto, si registra che tra il 2010 e il 2014, “le uscite di parte corrente al netto degli interessi sul debito pubblico (costituite dalle spese per il personale, dai consumi intermedi, dalle prestazioni sociali, etc.) sono salite di 27,4 miliardi di euro. Anche in rapporto al Pil, le uscite correnti risultano in deciso aumento: se all’inizio di questo decennio l’incidenza era pari al 41,4 per cento, l’anno scorso la stessa ha toccato il 42,8 per cento”. E così, si giunge dritti dritti alla cifra di costo per gli italiani della macchina pubblica, appunto, come anticipato, 692,4 miliardi nel solo 2014.
Un momento: se la spesa pubblica nel suo complesso mette il turbo, tuttavia alcune voci si abbassano decisamente. Ad esempio, le principali spese in conto capitale, per meglio dire, gli investimenti. Nel 2010, il loro valore ammontava a 64,7 miliardi di euro, nel 2014 si scende a 49,2 miliardi. In altre parole, in 5 anni gli investimenti si sono contratti del -23,9 punti percentuali. Che significa, in termini assoluti, ben 15,4 miliardi in meno nel circuito Paese.
Ma andiamo ancora più a fondo, per un ‘operazione ancora più puntuale. Affidandoci alle tabelle della Cgia Mestre, indichiamo l’andamento delle 5 voci di spesa che compongono la spesa corrente della pubblica amministrazione italiana. Limitiamoci alle semplici voci, considerate fra il 2010 e il 2014:
Spesa per il personale: -5%; risparmio casse pubbliche, 8,7 miliardi di euro (secondo altre fonti, 11 miliardi).
Consumi intermedi (che hanno visto la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi e che riguardano anche e spese di manutenzione ordinaria, le spese energetiche, quelle di esercizio dei mezzi di trasporto, la ricerca/sviluppo e la formazione del personale acquistata all’esterno): +3,4%. Aumento pari a quasi 3 miliardi.
Le prestazioni sociali in natura acquistate (acquisti dei medicinali, dei farmaci, l’assistenza medica, etc): -5,5%, in termini assoluti risparmio di 2,5 miliardi.
Spesa per le prestazioni sociali in denaro: tenendo conto del fatto che ‘l’80% circa di questa voce è assorbita dalle pensioni, il welfare ha registrato una impennata vicina al 10%, con un aggravio per la spesa pubblica di 29,6 miliardi di euro. Con alcune precisazioni: spesa pensionistica a parte, pesano anche i contributi a sostegno al reddito erogati a famiglie e lavoratori che in questi ultimi anni si sono trovati in difficoltà. Inoltre, dal 2014 si è aggiunta una ulteriore spesa, il bonus degli 80 euro, che sono pari a 5,8 miliardi di euro. Sulla natura del bonus è interessante la scelta: come ha avuto modo di precisare il Ministero dell’Economia e delle Finanze il bonus degli 80 euro non è classificato come un taglio fiscale, bensì come una misura di spesa sociale.
Infine, le Altre uscite correnti: precisando che queste contengono le spese residuali, fra cui gli ammortamenti e le imposte versate dalla stessa PA, l’incremento è stato del 10,1%, vale a dire un aumento di 6 miliardi di euro.
Non c’è dubbio che il vero problema a questo punto, come messo in luce dal commento del segretario della Cgia Mestre Giuseppe Bortolussi, sia il rischio che, perdurando questo stato di cose, nel 2016 scattino “le clausole di salvaguardia, con il conseguente aumento dell’Iva”. Rischio che, stando a Bortolussi e sulla base di quanto ricordato, “è sempre più concreto”.