Spazio urbano e cittadini: le storture di una visione solo economicista

Urgente rimettere in campo i classici istituti dell’urbanistica “progressista”

Urbanistica, ovvero uno degli strumenti più invocati dalle pubbliche amministrazioni, più utilizzati e chiacchierati del momento. Eppure ben pochi fra i cittadini hanno esatta consapevolezza di quale può essere l’impatto di questo strumento sulle loro vite quotidiane, tendendo a respingere l’utilizzo e la partecipazione a questo processo di organizzazione dello spazio urbano ma non solo, come argomento da noiose e accademiche congreghe. Abbiamo raggiunto l’urbanista Ilaria Agostini, fiorentina, autrice di una vasta bibliografia, ricercatrice all’Università di Bologna, per porle alcune domande.

Cos’è l’urbanistica?

Per spiegare la natura dell’urbanistica, è necessario partire dal legame naturale e imprescindibile che lega territorio e politica. “Il territorio è la dimensione imprescindibile della politica”, scrive il sociologo Massimo Ilardi. Ma tra questi due termini, è necessario introdurre un terzo “oggetto” che vi è direttamente coinvolto: l’urbanistica, o se si vuole «governo del territorio», in quanto materia che disegna e disciplina, dal punto di vista normativo/concessorio, lo spazio pubblico, i suoli, gli edifici, il loro impiego e le loro trasformazioni”.

Si tratta quindi di uno strumento neutro, un semplice oggetto per rendere concreto il rapporto territorio-politica?

Ovviamente, il ruolo dell’urbanistica non può per sua natura essere neutro, ma è anzi profondamente informato dalla natura economicista del paradigma dominante che modella il politico, dal momento che rappresenta lo strumento della sua rappresentazione-gestione nel “mondo”. Tant’è vero che, nella società occidentale, l’urbanistica si muove secondo i dettami della razionalità d’impresa, secondo il modello economicista del neo-liberismo. Dettami cui il governo del territorio si adegua, sottoponendo le dinamiche trasformative, più che ai bisogni e alle aspettative della popolazione (negletti, in verità), alle istanze del profitto e dell’estrazione della rendita”.

Ma si può davvero ancora parlare di rendita fondiaria immobiliare, in un momento storico in cui la finanziarizzazione tende a rendere sempre più labile il rapporto con la res, ovvero con la materialità del mondo delle cose?

Basta guardare il mondo in cui stiamo vivendo per trovare la risposta. Il neoliberismo, che continua a essere il paradigma dominante, è molto legato al mondo del reale. Le potenze finanziarie investono su grattacieli, su complessi edilizi «vendibili» e su grandi opere infrastrutturali. Investono sui suoli, dunque, e vi costruiscono fortune aumentando all’eccesso la domanda. La triste euforia genera bolle speculative che, ingigantendosi e poi scoppiando, producono crisi come quella globale del 2007-2008, provocata appunto dall’attività edilizia incontrollata, incontrastata e favorita dalla politica”.

E in Italia?

Nell’Italia degli anni berlusconian-prodiani la bolla trova alimento nei provvedimenti legislativi (ad es. abrogazione dell’art. 12 della legge Bucalossi che nel 1977 introduceva la “concessione edilizia”) fino a generare, oltre al collasso economico, quello territoriale e ambientale. A questa crisi si è risposto con ulteriore “austerità”, con la vendita dei beni pubblici, con la «colpa del debito» (Bersani, 2020), aggravando lo stato di un territorio già malato. Paradigmatico il processo che ha portato dalla tremontiana Patrimonio Spa, all’invenzione del piano di alienazione dei beni demaniali (L 133/2008, art. 58) da inserire nei bilanci preventivi degli enti territoriali.

Ma qual è, o potrebbe essere, il fine di questa abbuffata di spazi?

“In buona sostanza, a quanto si prospetta a livello mondiale, il modello insediativo imposto dall’ideologia economica globale (e ad essa consentaneo) è Megalopoli, vale a dire conurbazioni smisurate che esercitano il loro dominio su territori desertificati e oggetto di rapina. Poiché «la terra è finita» (citazione famosa da Bevilacqua, 2006), continuare a costruire edilizia «vendibile» e infrastrutture (le cosiddette “GOII”, grandi opere inutili e imposte) presuppone un sovvertimento dell’ordine degli insediamenti, che a sua volta significa anche stabilire un nuovo ordine politico: le “città-stato” uniscono il modello tecnocratico al potere economico di megalopoli: «Svizzera più Singapore» (Khanna, 2017)”

Secondo questa visione, l’urbanistica sarebbe dunque completamente piegata alla visione economicista neo liberista, che non si cura dell’umano.

In realtà non sto dicendo questo. Basta mettersi d’accordo sul significato che si dà al termine “umano”. Il neoliberismo ha come fondamento metodologico l’individualismo utilitarista, la competizione, l’autoaffermazione dell’individuo. Umano, sì, ma protagonista individuale di un “autismo corale”, come dice Franco Arminio. I cittadini sono manager di sé stessi, consumatori e investitori. “La città è una public company»”, ha affermato un dirigente della Regione Emilia-Romagna presentando la nuova legge urbanistica regionale: la città è, cioè, un aggregato di investitori, di giocatori di borsa, pronti a trarre profitto dai travasi di denaro generati da scommesse sulla povertà altrui. Un luogo dunque dove urbs, civitas e polis sono sussunte nella sfera economica, dove le gerarchie di genere, etniche e di classe si consolidano e diventano “normalità”.

Ma se l’urbanistica è strumento di gestione e trasformazione dello spazio, diventa anche “facilitatore” dei concetti fondamentali della politica odierna, ad esempio del merito e della meritocrazia? E in che modo li realizza?

“Partiamo dal presupposto che il sistema attuale della politica sottopone a valutazione (economica) ogni aspetto della vita. Il principio espresso in una famosa affermazione di Milton Friedmann, «Non esistono pasti gratis», equivale ad affermare che non esistono servizi pubblici gratuiti e garantiti. Perciò, se accogliamo questo assunto, diventa evidente, date le disuguaglianze organiche e strutturali del sistema prospettato, che la meritocrazia non è che “la legittimazione etica della disuguaglianza”, come affermò Luigino Bruni in una trasmissione radiofonica del 2019. Che tutto questo non sia semplice elucubrazione intellettuale ma produca evidenti ed efficienti ricadute concrete sulla collettività, oltre ad essere la riprova che tutto è merce e tutto è negoziabile, che tutto è sottoposto a valutazione e contrattazione, emerge nettamente nelle pratiche e nei metodi dell’urbanistica. Nella pianificazione allineata, slogan come “meno piano e più contratto”, si accompagnano a dichiarazioni di principio di sapore paradossale: «valorizza[re] la capacità negoziale dei comuni», come si legge all’art. 1 della legge urbanistica Emilia-Romagna, 24/2017, al fine di conferire loro la forza contrattuale necessaria a fronteggiare i colossi del mercato”.

Ma l’urbanistica o “governo del territorio” non avrebbe anche la funzione primaria di rispondere ai bisogni della collettività?

“I bisogni si creano e si modulano con l’offerta del mercato, sono cioè interni ai principi economicistici di domanda-offerta. E così, mentre la città diviene smart, devolvendo alle piattaforme il potere di gestione, e si muta in un brand d’attrazione dei “capitali esteri”, il fabbisogno della popolazione scompare dai programmi degli urbanisti, più sensibili ai desideri degli investitori che alle istanze provenienti dai subalterni. La scomparsa del fabbisogno come fondamento della pianificazione si è mossa in parallelo all’introduzione della gestione manageriale dei servizi, alla monetizzazione degli standard urbanistici (standard ex DM 1444/1968, poi depotenziati dal decreto “del fare” 2013), alla mercificazione della casa etc.”.

Eppure, il concetto di “Piano urbanistico” dovrebbe in qualche modo imbrigliare in obiettivi di lungo respiro il concretizzarsi del rapporto politica-territorio e, per esigenze di consenso, tenere conto delle istanze collettive della società…

“Basta una parola magica per liberarsi di tutto ciò, ovvero flessibilità. La programmazione e la pianificazione, pongono ostacoli al libero mercato, limitano con “lacci e lacciuoli” gli animal spirits. Da «disciplina del welfare», l’urbanistica muta in strumentario utile all’accumulazione capitalistica: la normativa è depotenziata, è svilito il messaggio socio-politico, le pratiche amministrative sono ridotte all’inefficacia, la deroga assume il valore di norma, il piano diviene flessibile”.

Passando attraverso l’urbanistica, il “ponte di potere” che fa atterrare la politica sul territorio, si può resistere e rimediare?

“Ritengo che siamo di fronte ai risultati di ciò che Gramsci ha definito “rivoluzione passiva”: ovvero una rivoluzione operata dai poteri economici, che non emancipa le classi subalterne. Ecco, bisogna iniziare a fornire alla “gente” – come si diceva un tempo – gli strumenti di una nuova lotta, gli strumenti degli oppressi. Affermava l’urbanista Insolera che l’urbanistica non serve alle classi dirigenti, ma ai poveri, agli impoveriti, agli umili. Per essi, e per tutti, credo che sia urgente rimettere in campo gli strumenti di redistribuzione, di uguaglianza, i classici istituti dell’urbanistica “progressista” conquistati con le lotte negli anni ’60 e ’70. Penso all’equo canone, agli standard urbanistici (tot. di mq di scuole e verde per ogni abitante, dal Piemonte alla Calabria). Strumenti certo, da rinnovare e migliorare, ma da dissotterrare in questo panorama di macerie.

Tra ciò che resta della disciplina urbanistica, intesa in senso emancipatorio e redistributivo di ricchezze, individuo tre campi d’azione: in primo luogo, lo spazio pubblico, sempre più residuale, da rivendicare, ad esempio, tramite l’opposizione alla vendita dei beni demaniali, l’immaginazione di un riuso di segno collettivo delle volumetrie pubbliche dismesse nelle città, il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica che va di pari passo con l’offensiva contro la rendita immobiliare. Ma anche, con l’accoglienza delle classi lavoratrici transnazionali e con le pratiche di inclusione nel segno dei diritti, il superamento di recinti e ghetti dei dannati della città, insieme alla garanzia della presenza diffusa e dell’accessibilità universale dei servizi. Anche considerare verde pubblico e agricoltura urbana/periurbana come indispensabili servizi alla città diventa atterraggio concreto per l’urbanistica della “cura”, come l’attribuzione di «urbanità all’indistinto periferico, da riprogettare come costellazione di luoghi centrali ad alta vocazione civile e sociale”.

In foto Spaccanapoli da Sant’Elmo

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