Firenze – A proposito delle sottigliezze del dialetto toscano cito un singolare esempio della parlata fiorentina tratto dal libro di Raffaello Torricelli “Firenze e i Fiorentini. Psicologia di una città”.
L’avv. Torricelli racconta che due suoi amici letterati assisterono a questo episodio. Un automobilista rischia d’investire un pedone il quale gli grida:
Ooh! ch’a’ furia ?
L’ automobilista reagisce e gli dice che per prima cosa gli deve dare del lei e non del tu come ha fatto quando gli ha gridato c’ha’ furia.? Al che il pedone replica :
-No, io ho detto ch’ha ffuria
-No, tu hai detto c’ha’ furia
-No, (ho detto) ch’ha ffuria
Torricelli commenta che i due letterati di passaggio si guardano sbalorditi per quel naturale senso della lingua addirittura preso a pretesto di litigio per una quasi impercettibile sfumatura (ho un po’semplificato il testo del racconto per renderlo più comprensibile ai non fiorentini, rimando per la versione integrale al già citato Firenze e i Fiorentini. Psicologia di una città (pp. 77-8 dell’ediz del 2006 -Firenze Polistampa) .
La spiegazione, contenuta in una nota della stessa pagina, è che se si dice ha’ (con l’aspirazione) significa hai in quanto c’ è l’ elisione della i finale quindi si sta da dando del tu. Invece, se si da del lei si deve dire c’ha senza elisione come è confermato dal raddoppiamento della f di furia
Cosa da perderci la testa ma in senso positivo perché trovo gustose queste sottigliezze. Tutte le sfumature arricchiscono l’espressività della lingua e riguardano sia il lessico, come ci dimostra la poliedricità del greco antico, sia la pronuncia che è caratteristica identitaria. Nell’accento, nella parlata, troviamo lo spirito di un popolo e ,in questo caso, tutta l’arguzia toscana.
Passando invece all’area della Toscana occidentale ricordo che 50-60 anni fa gli anziani indicavano con la parola “via” il segno della moltiplicazione. Dicevano, ad esempio tre via sette, ventuno. Ma non sono riuscito a capire l’origine di questo termine
E si diceva (talvolta di dice tuttora) “per via” invece che “a causa”. Es. Sono rimasto in casa per via del coprifuoco.
Commentando un mio precedente articolo sul dialetto pisano e lucchese un amico che è vissuto diversi anni a Buti mi ha fatto giustamente presente che “roccia” non era mero sinonimo di immondizia ma indicava quel “sudicio generico che sporcava i pavimenti e costituito molto spesso dalla terra rimasta attaccata sotto le scarpe tanto che– -scrive- mi ero fatto l’idea che si chiamasse roccia per questo.. dopotutto la terra dalla roccia proviene ed ha con se anche sassolini” .
Credo che sia un’interpretazione esatta. Lo ringrazio per la precisazione che è preziosa perché spesso è difficile trovare la fonte delle espressioni idiomatiche.
Lo stesso amico mi ha anche ricordato che la parola “brocca” non indicava solo il recipiente, in vetro o ceramica, per l’acqua ma anche tutta la parte verde di una pianta (foglie e germogli) e rileva che era frequente sentire conversazioni del tipo: “vedi che bella brocca ha quella pianta” oppure “basta un po’ spuntargli qua e là la brocca a modino” o anche “ di brocca ne ha tanta ma di frutti davvero pochi”. Come si vede sono numerose le parole che stanno scomparendo ma che hanno segnato un’epoca. Mi soffermo su alcune di esse:
Companatico ciò che si mangia insieme al pane dal latino cum pane … può essere un formaggio, un salume ma anche una pietanza Tipico di un passato frugale in cui il pane era l’alimento principale e gli altri cibi avevano un ruolo “secondario”. Oggi le parti si sono invertite (almeno per un po’ di gente…).
Testo sinonimo di coperchio, soprattutto di una pentola ma anche di un barattolo. Non è facile capirne la derivazione anche perché l’accezione principale è quella che riguarda il testo letterario dal latino textus, “tessuto”, per indicare l’insieme delle parole che compongono uno scritto.
Alessandro Bencistà ne Il vocabolario del vernacolo fiorentino e toscano alla voce tèsto, scrive che è un coperchio di coccio o di metallo per pentole o tegami. Diffuso soprattutto a Pisa, Siena, Valdinievole; nell’Amiata, a Cortona e a Montepulciano vaso di terracotta per fiori; ad Arezzo sta per codesto; in Lunigiana come a Pistoia è una piastra di pietra per fare i necci. Termine in disuso ma troviamo testi per indicare determinati recipienti come il testo romagnolo per le piadine o la torta al testo umbra e in Toscana sono anche quelle piastre con cui si fanno le cialde tipici dolci di nozze o di prime comunioni.
Un’altra parola che non sento più è treppicare, termine tradizionale toscano per dire pestare con i piedi, produrre uno scalpiccìo.
In pieno disuso anche i francesismi come bigiù (cosa graziosa,) etager (scaffale) sortire come sinonimo di uscire.
Quando iniziai a lavorare i dirigenti usavano intercalare espressioni latine come brevi manu , mea sponte, camera caritatis , ad libitum, rebus sic stantibus, ad maiora che trovavo fastidiose in quanto esistono espressioni equivalenti in italiano e non aggiungono nulla alla pregnanza del discorso. Così come trovo fastidiose oggi espressioni in inglese tipo hub, cashback che hanno corrispondenti termini italiani anche se meno concisi. Mi sembrano invece assimilabili nella nostra lingua altre espressioni come lockdown o come il linguaggio dell’informatica che nascono dal linguaggio internazionale e a noi.ci arrivano già così.
Per non parlare del tedio dei luoghi comuni, come tant’è, e quant’altro, certo che sì/certo che no quando sono ripetuti continuamente in un discorso.
Torno, infine ai dialetti toscani per terminare con una citazione del grande Riccardo Marasco dalla sua famosa canzone Teresina
Te la portai da’i ‘Vivoli
A prendere un gelato
La mi disse l’e’ marmato
La mi fece scompari’….
( autore Riccardo Marasco dall’album Il porcellino ediz Birba 1990 CDRM2 ).
Vi troviamo due parole di altri tempi. Marmato per dire che una cosa è molto fredda. Scomparire per dire fare brutta figura usato per lo più nei confronti di altri, ovvero come canta Marasco, il marito che dice alla moglie mi hai fatto scomparì.