Firenze – Bianche o Rosse, ormai pari sono. Il Territorio non ha più colore. La diagnosi di Ilvo Diamanti, sociologo e politologo, arriva a Firenze come una sciabolata, in occasione della presentazione del libro di Marco Almagisti, docente dell’Università di Padova, “Una democrazia possibile”, che indaga due realtà emblematiche nel rapporto fra politica e società: il Veneto bianco e la Toscana rossa.
In questi territori una lunga Storia ha connesso valori, politica, società, sviluppo economico e li ha aggregati (qui in Toscana) intorno ad un medium: il Partito comunista. Cosa resta di tutte queste vicende? “Niente”, dice Diamanti. Tutto è cambiato: “la società si è liquefatta: tutti sono in relazione con tutti, ma sono sempre soli”. I Partiti “hanno ereditato una tradizione, ma l’hanno personalizzata e il patrimonio si è dissolto”.
La provocazione è dura. Alla luce di queste riflessioni abbiamo voluto rileggere i risultati di un’indagine dal titolo Dopo le Regioni rosse, realizzata da Stamp con l’aiuto di un gruppo di esperti dell’Università di Firenze. Un questionario che cerca di cogliere il nesso fra passato e futuro è stato inviato nel 2016 a oltre sessanta opinion leader (giornalisti, intellettuali, docenti, politici, manager, sindacalisti, imprenditori). Più della metà di loro hanno risposto con osservazioni di grande interesse.
Esiste ancora un “plus”, una differenza specifica nel patrimonio di governo politico e valori sociali della nostra regione che consente di proiettarci in un futuro meno inquietante? Oppure ha ragione Diamanti, che tutto ciò è stato dissipato da una governance che non ha saputo trasformarsi, e resta davvero il grande Nulla?
Una prima risposta emerge immediatamente dalla nostra indagine. Gli intervistati non sono “antipatizzanti”, né cervelli “antiregime”, ma tutti prendono le distanze dal “non modello” di governo che si è andato prefigurando in questi ultimi anni. Alla Regione Toscana non si perdona di aver fatto da battistrada, nei principi generali, al “Porcellum”. Non le si perdonano i “goffi tentativi” di mettere in atto politiche industriali totalmente prive di efficacia.
E neanche l’incapacità di creare una classe dirigente preparata e competente, perché vige ancora nei fatti il principio di cooptazione, o per dirla in modo più elegante lo spoil system (sistema del bottino). Ovvero quella “praticaccia” che distribuisce arbitrariamente cariche e incarichi a simpatizzanti e fedeli affiliati al partito di governo, facendoli poi gentilmente pagare ai contribuenti.
E tuttavia, al contrario di quanto sostiene Diamanti, secondo loro questa nostra società non si è liquefatta. No. Resta l’associazionismo sganciato dai partiti (per fortuna!), e la sua voglia di fare. Resta uno spirito “local”, ma con un giusto sguardo oltre il proprio confine. E restano i valori di solidarietà, integrazione. Insomma: questa nostra società liquida non è. Ma certo, le vicende che in questi giorni stanno coinvolgendo il Pd difficilmente inducono a pensare che tutto questo patrimonio possa essere reinterpretato da una politica ormai sempre più autoreferenziale. E il “Rosso” non è come un brand, che una volta creato resta per sempre.
Dopo le Regioni Rosse: una premessa.
Per qualcuno la fine di “Bianche e Rosse” coincide con la Caduta del Muro, per Ilvo Diamanti con l’avvio di Mani pulite, nel ’92. Poco importa. L’ossatura dell’indagine di Stamp Toscana si riferisce a una fisionomia regionale molto più recente: gli ultimi decenni. Quelli dell’intensa attività legislativa e della corsa per arrivare primi in Italia. Quelli del massimo decentramento democratico e della continua concertazione. E ancora, si rifà alla Toscana dell’”interventismo” nella regolazione dei rapporti economici e nella promozione dello sviluppo.
Oggi, da qualsiasi punto si voglia guardare la questione, la crisi ha spazzato via gran parte degli strumenti messi in campo negli ultimi anni. Questa era la premessa dell’indagine. E dunque agli intervistati si è chiesto, qual è il cambio di passo necessario in Toscana, sia dal punto di vista istituzionale che economico?
Il modello istituzionale
La corsa per fare da apripista alla migliore legislazione regionale su temi civili, ambientali, sociali secondo la maggior parte degli intervistati si è ormai conclusa. Già adesso la produzione normativa appare “appannata” e “erratica”. Qualcuno afferma perfino di guardare con apprensione ad una rinascita di questa tendenza, perché in molti casi si è agito con sciatteria, malamente . “Non ci dimentichiamo che la legge elettorale toscana è stata quella che ha ispirato il Porcellum” ricorda qualcuno. Da molte parti arriva un caloroso e convinto suggerimento contrario: delegificare. Questo sarà l’imperativo futuro: ridurre gli enormi costi di sistema in cui si stanno muovendo cittadini e imprese per la leggendaria superproduzione normativa tipicamente italiana.
Anche la complessa architettura istituzionale che si è andata a costruire negli anni in regione andrà ridimensionata. Il processo in parte è già in atto: decentramento, addio. I poli attorno a cui si andranno a consolidare gli assetti istituzionali saranno tre: Regione, Aree metropolitane, gestioni associate dei Comuni. C’è da augurarsi che la fase di trapasso ad un sistema stabilizzato non determini lo stesso caos istituzionale prodotto dall’abolizione delle Province.
La pratica della concertazione, inoltre, che distingue da sempre l’operatività regionale toscana va radicalmente mutata. “Così come è oggi è ormai limitata al reperimento di risorse, più che all’individuazione di soluzioni comuni: solo tante diatribe che finiscono in un’incapacità di decisioni reali”. Per qualcuno va ampliata a nuovi soggetti sociali, per accrescere la capacità di ascolto. Ma nella crisi (questa sembra l’amara conclusione di molti) gli interessi vanno selezionati, più che mediati. La nuova parola d’ordine deve essere: decidere. Già, decidere. Ma come?
Il modello economico
“Ai governi delle Regioni rosse è stato attribuito un attivo interventismo nella regolamentazione dei rapporti economici e nella promozione dello sviluppo. Proseguirà?”. Questa domanda ha sollevato un vero e proprio vespaio. “Se prendiamo ad esempio gli interventi fatti finora, meglio astenersi” dice qualcuno senza mezzi termini. Manca una progettualità credibile, una strategia vera e propria. Un intervistato ricorda l’ultimo “visionario” e ambizioso progetto di Claudio Martini, condiviso da una parte del mondo della cooperazione.
Quello di Mps come banca sistemica che avrebbe dovuto fornire linfa e ossigeno al tessuto regionale per affrontare sfide globali. Turiddo Campaini, presidente di Unicoop Firenze, parlò di “finanza popolare” e investì nella banca centinaia di milioni di euro. Oggi tutta la vicenda è seppellita dai faldoni della Magistratura, e quel progetto fu una débacle che nessuno probabilmente racconterà mai. Non in quella sua autentica volontà di “osare” un’originale sfida sistemica. Fu un caldo sabato del 2014, il 14 giugno, quando l’allora presidente del consiglio di sorveglianza di Unicoop si ritirò dopo 41 anni. Dette le dimissioni di fronte ad un’assemblea di mille soci che dovevano approvare il Bilancio.
Uno e solo uno di loro si alzò e chiese: “Vorrei sapere quanto si è perso nell’investimento Mps”. “Le minusvalenze finanziarie in bilancio sono state compensate dalle plusvalenze” rispose Campaini, laconico, con il volto pallido e un’espressione che non ammetteva replica alcuna. Da allora sulla vicenda Mps calò per sempre la parola “Niet”. Difficile immaginare un epilogo più…Rosso di così.
Nessuno ormai si aspetta che esista una governance capace di progetti grandiosi e guizzi ideali per ridipingere la Toscana di Rosso, ma la domanda è ancora più stringente. Quali sono le strategie da mettere in atto in campo economico con poche risorse e tanti competitor territoriali? La programmazione dovrà riguardare le infrastrutture materiali e immateriali “che favoriscono la sfida dell’innovazione continua”. Si dovrà promuovere “un ambiente favorevole agli investimenti in una logica di competizione fra territori a livello mondiale”. Si dovranno incentivare aree particolari, segmenti produttivi particolari. Ma chi dovrà farlo? Quale classe dirigente? Qui il tema diventa anche più spinoso.
Il ceto politico amministrativo e il resto del mondo
“Il Pci e i partiti comunisti provvedevano alla selezione e al ricambio del ceto politico amministrativo. Il Pd svolge questa funzione?”. Unanimi le reazioni a questa domanda. “Il partito personalistico, ormai non seleziona più niente”; “I vecchi meccanismi di selezione sono saltati e i nuovi non si vedono ancora”; “Non ci siamo! Un paese moderno deve avere una classe dirigente qualificata e competente!”. E qui vediamo avanzare solo un mix “di competenze tecniche e cooptazione”.
Il decadimento del ceto politico amministrativo, insomma, è sotto gli occhi di tutti e la Toscana non fa eccezione. Quella compenetrazione di politica come “risorsa” del territorio che ha caratterizzato la “toscanità” si è sciolta definitivamente. In questo panorama desolato, secondo gli intervistati, c’è una scheggia che apparentemente viene dal passato, ma vecchia non è.
E’ l’associazionismo. Un tessuto molto denso, un capitale sociale che ha maturato competenze, garantisce attività, servizi, supplisce alle mancanze del pubblico welfare. Fortunatamente per lui non ha più colore, anche se “resistono sacche di militanza, intrecci con la cooperazione e il sistema politico”. Ma ormai l’associazionismo vive (quasi) di vita propria e di una generalr volontà di “fare”.
E infine ci sono i valori civili e sociali che impediscono alla società toscana di “liquefarsi”. Sono radicati nel Dna di questa regione. Solidarietà, integrazione resistono, anche se messi a dura prova dalla crisi. “Però non sono valori da proclamare, ma sfide. E’ meglio un valore realizzato, che uno solo enunciato”. E’ il monito pertinente di un intervistato. Come dargli torto?
Foto: Ilvo Diamanti (a destra) con Mario Caciagli (al centro), Antonio Floridia in occasione della presentazione del libro “Una democrazia possibile”