Sollicciano, Progetto Firenze: “Apriamo un dibattito sul carcere”

Firenze – Riceviamo e pubblichiamo la nota del Progetto Firenze. 

Si parla molto in questi giorni del carcere di Sollicciano. Si punta l’attenzione soprattutto sullo stato di forte degrado strutturale, invocando interventi edilizi. Invece, i problemi principali del carcere, e di Sollicciano in particolare, sono soprattutto altri. Sono gli stessi modelli di carcerazione che andrebbero ripensati, nel rispetto delle leggi in vigore nel nostro ordinamento.

Per queste ragioni, un gruppo di cittadine e cittadini di Firenze, a titolo personale, propone di aprire un vero dibattito sul carcere di Sollicciano e sul suo rapporto con la città, per definire concreti progetti di risanamento dell’istituto e aprire una nuova stagione di inclusione sociale e di superamento dei canoni tradizionali, e fallimentari, dell’esecuzione di pena. Realizzare a Firenze un vero Giardino degli Incontri aperto al confronto, uno spazio politico per discutere tutti insieme – cittadinanza e istituzioni, operatori del settore e dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, detenuti e polizia penitenziaria – sbloccando lo stallo che si produce ogni volta che si tocca l’argomento dell’esecuzione di pena.

Il documento è il primo passo di una mobilitazione intorno all’istituto di pena della nostra città e sarà pubblicato per raccogliere altre adesioni e contributi di riflessione sul sito dell’Associazione Progetto Firenze, che, com’è sua tradizione, svolge un ruolo di servizio sui temi delle trasformazioni urbane. Di seguito il testo del documento:

Non è il cemento che serve a Sollicciano

Il carcere di Firenze è nato male e vive peggio. Com’è costume di ogni fallimento, s’ipotizza continuamente di costruire un nuovo istituto di detenzione. In verità, c’è anche chi propone di demolirne solo alcuni bracci e costruirne di nuovi, magari per poi alzarne altri in spazi limitrofi alle pericolanti mura. Un progetto in realtà non c’è, però se ne parla come fosse qualcosa di inevitabile. Il fato penitenziario, quando entra in crisi, ricorre invariabilmente a strategie comunicative ambigue. Strategie uguali nel tempo che, invariabilmente, si risolvono in nuovi fallimenti. Macerie che si accumulano a fondamenta di evitabili macerie future.

I tre pilastri dell’emergenza carceraria sono declinati in questo ordine: edilizia penitenziaria, incentivo alle misure alternative, incremento del personale di polizia. Il nostro problema non è però sapere quale sarebbe il sistema penale ideale. Il codice disciplinare appartiene a un ambito di controllo e di stretta relazione tra fuori e dentro un carcere. Esso fa parte di una scienza maldestra all’interno della quale la delimitazione del discorso penale è interiorizzata in esigenza punitiva diffusa e nell’emergenza permanente. Il nostro compito è, piuttosto, quello di mettere in luce le contraddizioni di un sistema che, per esempio, spinge per l’edilizia penitenziaria da un lato e dall’altro per le misure alternative. Perché costruire nuove carceri invece di assumere nuovi educatori? Perché parlare di emergenza criminalità se i crimini sono in diminuzione? L’emergenza è continua. Perché?

Noi non siamo portatori di speranza e cerchiamo di osservare la realtà del nostro sistema di pena per quello che è, nella sua agghiacciante quotidianità. Il carcere è il risultato finale di questo processo, il calcestruzzo per costruire nuovi padiglioni la sua ragion d’essere e la marginalità sociale la sua carne viva.

Il sovraffollamento carcerario è un’emergenza che non avrebbe ragione di esistere se fossero applicate le leggi in vigore nel nostro ordinamento per l’esecuzione esterna di pena. La nostra giustizia, però, è di classe. Lo dicono le statistiche. È secondo la classe cui si appartiene, secondo le proprie possibilità finanziarie, secondo le posizioni sociali che si occupano, che si ottiene giustizia.

Non serve costruire un nuovo carcere a Firenze, e non servono neanche nuovi padiglioni. Occorre solo guardare in faccia la realtà, e lavorare per costruire un rapporto diverso con la stessa città di Firenze.  Un rapporto basato su una nuova capacità, politica e amministrativa, di intercettare le tante difficoltà del vivere sociale. È possibile, basta volerlo. La parola “chiave”, infatti, è decarcerazione, che significa superare il carcere e la stessa concezione di criminalità. L’articolo 27 della nostra Costituzione dovrebbe essere applicato nella sua semplice e densa progettualità, dando vita al recupero, alla risocializzazione, alla responsabilizzazione dell’individuo e alla riparazione del danno, sconfiggendo così le false utopie della punizione e della rieducazione come elementi storici dell’esecuzione di pena nel nostro ordinamento.

Occorre, dunque, creare un ponte fatto di idee e di progetti concreti per una continua interazione tra Sollicciano e Firenze, e tra la città e il carcere. Lo Stato e gli enti territoriali potrebbero fare la loro parte potenziando la Magistratura di Sorveglianza, l’Esecuzione Penale Esterna e le strutture di accoglienza per i semiliberi. Così facendo, si potrebbe davvero porre fine al sovraffollamento e risolvere la situazione di permanente sotto organico di tutti i corpi funzionali del carcere: polizia penitenziaria, personale amministrativo e sanitario, rieducatori. È una strada da seguire, che oltretutto aiuterebbe ad alleggerire le sezioni per ripararne anche le mura, i corridoi, le celle e le fondamenta. Un’opera lunga e faticosa, meno, però, della costruzione di un nuovo istituto. E più economica.

Oggi tira una brutta aria a Sollicciano, un’aria che puzza di calcestruzzo. Anche in città, però, si respira una brutta aria. Firenze si è trasformata in una sorta di recinto per il consumo diffuso, dove chi non si adegua viene spinto ai margini. Le trasformazioni corrono veloci.

 Noi nutriamo la ragionevole illusione che dalla ristrutturazione del carcere di Sollicciano (e non dalla costruzione di un nuovo carcere) possa partire una stagione di rinnovamento dei diritti individuali e sociali per impedire che la sorveglianza carceraria, grazie a nuove tecnologie politiche, si dilati all’intero corpo della società e per dare senso compiuto all’articolo 27 della Costituzione italiana. 

Giovanni Michelucci progettò il Giardino degli Incontri per rendere meno disumano l’ambiente architettonico di quell’istituto. Noi vogliamo costruire un Giardino degli Incontri grande come l’intera città, che modelli una nuova cultura nella direzione dell’inclusione sociale e di misure alternative riparative.

Massimo Lensi

Dmitrij Palagi

Grazia Galli

Emanuele Baciocchi

Sandra Gesualdi

Antonio Iocca

Antonella Bundu

Donella Verdi

Sergio Staino

Tomaso Montanari

Simona Maggiorelli

Maria Milani

Valentina Adduci

Serena Pillozzi

Maurizio Brotini

Roberto Di Loreto

Laura Grandi

Francesca Rampinelli

Francesco Torrigiani

Maurizio Storai

Fulvia Fanzone

Cristiano Imperiali

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