Firenze – Un’antica stazione di posta dei cavalli è stata scelta come studio fiorentino da Simone Micheli, architetto di fama internazionale. L’interno presenta in modo impeccabile la particolare sensibilità di Simone Micheli, sorprende la capacità di modulare il suo intervento architettonico, accettando la storia dello spazio come superficie su cui sedimentare l’appartenenza di questo tempo. Con diversi studi sparsi nel mondo, un enorme bagaglio di esperienze tra architettura, interior, design e comunicazione, e un pensiero, legato alla bellezza e all’armonia, Simone Micheli vive immerso in una contemporaneità costantemente proiettata verso il futuro. Ogni suo progetto si distingue per unicità, sintesi e raffinatezza d’intervento.
Nella luce di un giorno di primavera inoltrata mi accoglie nel suo studio.
Le sue realizzazioni sono frutto di un pensiero originale…
“Sono un uomo di sintesi e parlo attraverso le geometrie, attraverso la luce attraverso le forme. Portando contenuto cerco di trasformare la complessità del nostro tempo in semplicità. Questo è il senso dei miei progetti. Il nostro mondo è complesso. Noi viviamo nella complessità in tutti i sensi”.
Nei suoi progetti immaginiamo una realtà oltre la realtà…
“Amo ripetere che vivo nel mio futuro. Ho una mia espressività. Mi sono laureato in architettura, con pieni voti e abbraccio accademico, però sono un creatore che è una cosa diversa. Chi mi cerca desidera avere il mio stilismo perché sa qual è il mio linguaggio, il grado di espressività e non accetto compromessi”.
Quindi la sua espressività è la stessa, anche se ci sono delle differenze sostanziali di territorio, di società…
“Il mio cliché non si ripete in maniera uguale. È espressivo, cambia di volta in volta, in relazione alle variazioni dei territori, delle società, dei committenti con peculiarità diverse da altri. Chiaramente il segno mantiene la sua forza e viene mitigato o leggermente alterato per questioni cromatiche per esempio. La riconoscibilità dei progetti è data dai volumi che creo, dai colori, dalle luci, alle quali tengo particolarmente e rappresentano il fil rouge di tutti i progetti”.
È un rapporto fondamentale…
“Sono innamorato della luce come lo era mio padre. Dipingeva con la luce naturale, e ogni volta che cambiava studio metteva una natura morta nel centro dello spazio. Andava allo studio, si sedeva sulla poltrona, fumava una sigaretta, ascoltava della musica classica e aspettava l’imbrunire per vedere come si muoveva la luce, per comprenderne il senso. Questo durava circa un anno. Mio padre mi ha trasmesso questa grande passione. In studio sviluppiamo progetti di master plan, architettura, interior, design, corporate e immagine coordinata. Facciamo il concept, il progetto preliminare, il progetto definitivo, la selezione dei materiali, la direzione artistica. La luce è l’unico tema che tratto in maniera esecutiva. La dimensione e le aperture dei raggi dei corpi illuminanti, la temperatura colore. È una progettazione esecutiva completa. Sono molto attento alla sostenibilità economica, anche al tema delle eco-compatibilità.
Qual è il suo approccio?
“Per me disegnare una grande architettura, o un master plan o una caffettiera è la stessa cosa, in termini di approccio progettuale. Cambiano le regole del gioco. Cambiano le questioni legislative, burocratiche, amministrative, ergonomiche, funzionali ma un progetto è un progetto. Chiaramente il tema della eco-compatibilità nella progettazione di oggetti industriali è molto complesso”.
Ci sono dei controsensi…
“La storia del disegno industriale è una storia un po’ controversa. I tempi di vita di un prodotto industriale ci sono sempre più ridotti per favorire la speculazione. Sono molto pragmatico però. La logica del profitto va oltre ogni pensiero. Quando camminando per le colline un uomo si ferma a guardare le meraviglie della natura, pensa che l’universo è perfetto, tutto è armonia e noi l’abbiamo completamente devastato con terribili cose”.
Mi parla della sua mostra all’Accademia delle Arti e del Disegno?
“Inaugura il 13 settembre e continua fino al 27 negli spazi in piazza San Marco a Firenze. È stata desiderata da Cristina Acidini che è di una levatura intellettuale incredibile. Racconta 30 anni di attività. Ci saranno una quindicina di oggetti di disegno industriale, da un bagno turco alla cassetta delle lettere, mentre su degli schermi passano immagini di progetti di architettura”.
Come crea i suoi progetti?
“Nei progetti io inserisco solo prodotti creati da me. E non ci sono dipinti. Credo che i “miei” spazi siano opere d’arte dove l’uomo vive delle esperienze. Questo è un po’ il senso. Nel mio immaginario, fino a oggi, il lusso è stato sempre concepito come opulenza, utilizzo di materiali pregiati in architettura. Per me adesso il lusso è un nuovo rapporto tra spazio, uomo e tempo. È fatto di semplicità Il nuovo lusso. Di momenti da dedicarci”.
Com’è il suo rapporto con Firenze?
“Firenze per me è sempre stata una città matrigna. Ho lo studio e la famiglia qui. Ho uno studio a Milano, uno a Dubai, uno a Rabat, uno a Busan in Corea. I lavori che ho fatto in questa città si contano sulle dita di una mano”.
Dov’è il suo cool business?
“Il mondo. In sintesi summa per quello che è il mio percorso, il mondo è lo spazio ideale per costruire dei luoghi come opere d’arte. Le mie architetture, i miei interni hanno una forte unicità. Disegno velocemente per non perdere l’idea nata da un sogno. Anche quando realizzo spazi giganteschi. I miei collaboratori non progettano, riproducono il mio sogno”.
Quale progetto sta seguendo adesso?
“Un progetto estremamente interessante. Ho obbligo di riservatezza ma è un progetto straordinario per il metaverso in uno spazio infinito. La condizione di forza di gravità ci obbliga a vincoli strutturali e meccanici di acquisizione delle acque, elettrici, di gestione delle risorse energetiche, nel metaverso non c’è niente. C’è la nostra fantasia, il nostro pensiero di un mondo diverso e parallelo dove poter vivere esperienze ma, dove può non esistere la forza di gravità. Non ci sono regole in questo mondo. Le regole sono i sogni possibili. Sono uno dei primi architetti al mondo a fare un lavoro del genere”.
Lei vive in un’altra realtà…
“Sono per la logica dell’integrazione per dissonanza. La Firenze storica è meravigliosa perché è fatta di tante giustapposizioni per dissonanza voluta. Invece le periferie sono omogeneizzate secondo una logica di distributiva formale assurda, metafisica”.
Mi parli un po’ del suo inizio…
“Giovanni Michelucci è stato per me un mentore, un nonno un amico. L’ho conosciuto 3 anni prima che morisse. Tutte le settimane andavo a trovarlo. Lo conobbi a 24 anni a una sua mostra a Fiesole. Un altro pensiero è per Bruno Zevi. Ho scritto per lui sulla rivista “l’Architettura”, avevo 23 anni”.
In foto: Simone Micheli. Foto di Maurizio Marcato