
Dicasi onestà intellettuale quando si riconoscono non tanto o non solo i propri errori ma a volta la parzialità dei giudizi tirati a fronte di atteggiamenti circoscritti. In questo breve e sentito spazio allora cerchiamo di fare uso di questa declinazione mentale e culturale che dovrebbe regolare più spesso la nostra dialettica. Correvano gli anni del primo mandato di Graziano Delrio, dal 2004 circa circorum, e il sottoscritto con la consueta verve sconosciuta ai più, a fronte dell’ingresso dei primi cattolici de iure et de facto nelle compagini di giunta, auspicava dalle pagine di un quotidiano locale poi defunto, che si facesse finalmente luce sui misfatti di alcuni partigiani rossi nel dopoguerra. Unica condizione, a modesto avviso dell’allora scrivente, per raggiungere finalmente non tanto l’auspicata (e secondo noi irrealizzabile) memoria condivisa, quanto una più semplice pace sociale che garantisse un po’ di partecipazione trasversale nelle ricorrenze storiche. In quegli anni orbene, lo storico di Istoreco, forse il più autorevole esponente nel campo della resistenza locale, Massimo Storchi ci pareva un po’ come il sommo custode di quel Sacrario mitologico del partigianato reggiano scritto e serrato dai vincitori, che si schierarono naturalmente dalla parte giusta della barricata, ma estremamente restio a schiudere il cancello del monumento ai leggeri refoli delle eventuali verità alternative che aiutassero non tanto a ribaltare ma a completare il quadro di un passato recentissimo ed ancora, sotto certi aspetti, divisivo.
Poi lo rileggiamo a 20 anni di distanza, sempre facendo conti spannometrici, nella Reggio del 2022, quella che si prepara al 25 aprile mentre a poco distanza da un mese e mezzo Putin bombarda un Paese sovrano massacrando i civili senza che nessuno abbia ancora capito il perché e che ancora pullula di un fronte più o meno compatto ma con sfumature e provenienze del tutto differenti (quando non opposte come estremisti di destra e di sinistra). Una parte (importante) di Reggio che si indigna per le battute sull’acrostico Anpi di Gramellini ma vigliacco se spenda una parola dicasi una sulle nefandezze dei russi e/o di pietà su centinaia di bambini, donne e anziani ucraini fatti ammazzare senza pietà. Orbene Massimo Storchi, massima autorità storica della nostra resistenza è bene ribadirlo, contrasta in quasi beata solitudine semi-istituzionale, le frotte di neneisti (né con Putin né con la Nato) che infestano i social con le loro ricostruzioni un tanto al braccio. Precisando contesti e motivi delle azioni. Lo stesso Storchi ribatte ai nostalgici stalinisti con nomi anagraficamente tratti dalla belle époque dell’Urss, che ora dalle sperdute steppe dell’est non spira più il vento comunista della libertà, ma terrificanti folate di bora dittatoriale. Contesta alla fitta coltre di complottisti che non valutano più i fatti sotto il razionale rapporto di causa-effetto, l’irrisorietà delle loro radici “valoriali”. Sbertuccia con pacata eleganza i pacifisti col culo altrui cercando di far loro capire che, a parti invertite, oggi i “fascisti” sarebbero i russi e le vittime innocenti sarebbero gli ucraini. Senza se e senza ma.

Ovvero si oppone (e non dev’essere centro facile in una Reggio, praticamente unica città italiana in cui garriscono a non finire le bandiere arcobaleno mentre i colori del vessillo ucraino si devono cercare col lanternino) gagliardamente, ma con la forza della ragione e con l’assenza di scheletri nell’armadio, a quell’adagio davvero troppo, troppo forte dalle nostre parti che recentemente il direttore de la Repubblica Ezio Mauro ha chiamato “l’inversione della morale”. Storchi cioè intuisce, e questo gli fa onore assai, che tutti i fenotipi sopra citati concorrono, ciascuno con gradazioni più o meno consapevoli, a derive del tutto illiberali della ricostruzione storica e del futuro della tenuta democratica del nostro Paese. E capisce, come dovrebbe fare lo storico moderno e l’intellettuale onesto (per tornare al preambolo con cui abbiamo attaccato il pezzo), quale faccia assuma di volta in volta la tirannide. Perché pastasciuttate e cappellettate abbiano d’accordo il gusto dell’antifascismo ma siano sempre e solo condite col sale della democrazia.