Siamo sempre ad Est di qualcuno: il caso Perego

peregoSì, anche noi apprezziamo molto le ragazze dell’Est, sia chiaro. Sono molto simpatiche, se aggiogate tirano più di un carro di buoi, dopo abbastanza vodka sono tutte bellissime (la bellezza, nell’occhio etilico di chi guarda), non geli non scotti più mano e tanti altri pregi che adesso non ci vengono in mente. Anche Baglioni ce ne enumerava un sacco, e di Claudione ci si può sempre fidare.
Non importa quanto a Est esse siano: le desolate taighe siberiane vanno bene, le lande sperdute della Cocincina generano bellezze dagli occhi a mandorla, la Mongolia occidentale non è mai stata così attraente e via via sempre più a Est, fino all’Ontario, al Maine e poi Spagna e ancora fino alla Liguria, fino a capire che non c’è ragazza più a Est della tua collega che siede immediatamente a Ovest di te, o di Paperino. Perché il tuo Est è sempre l’Ovest di qualcun altro, dopotutto. Ci ha un po’ sorpreso la veemenza di questa tempesta nel bicchiere che, all’improvviso, dal nulla è arrivata a minacciare l’establishment dei grandi poteri politici della RAI.
Francamente, credevamo che fosse la solita battagliuccia combattuta a suon di dislike su Facebook e di rimandi acidi su Twitter, salvo poi doverci ricredere: in poche ore, la querelle è arrivata in Parlamento, da dove le truppe acquartierate in attesa di ordini hanno ringraziato il dio delle cause perse e si sono lanciate, colletto tra i denti, oltre l’ostacolo, accusandosi a vicenda della rovina del Paese tutto. Gongola, invece, probabilmente Antonio Campo Dall’Orto, che sta già abilmente usando questo fattaccio per accelerare il suo programma di rinnovamento del daytime RAI. Quale che esso sia, naturalmente; a noi poveri, comuni mortali non è dato saperlo. Anche perché uno che viene da MTV e ha diretto un po’ alla sanfrasò La7 e Telecom Italia Media, almeno a sentire i suoi detrattori, come farà mai a rinverdire, o migliorare, o nobilitare un palinsesto RAI che già da qualche tempo appare un attimino confuso? Sarà un meraviglioso cambiamento verso il moderno come quello scelto mettendo Carlo Conti direttore artistico di RAI Radio, sfociato nel massacro di tante ottime trasmissioni di intrattenimento culturale parlato di Radio 2 a tutto vantaggio della musica spintonea dei discografici?
O ci aspetta forse un ritorno al futuro, ovvero di nuovo una televisione sì di servizio pubblico ma intonata ai tempi che corrono, non agli anni ’80? Eh già; di qui, il nostro principale dubbio. Che l’uscita di Paola Perego, subito infamata sui social, non fosse delle più pregevoli era facilissimo capirlo fin dalle prime battute. Oddio, che Paola Perego sia infamata sui social, non è certo una novità, e anche prima che venissero i social non andava tanto meglio: con la sua giovinezza imbarazzante per i dinosauri della tivvì, col suo piglio manageriale e le sue espressioni sempre un tantinello arroganti la povera Paola non si è mai fatta amare particolarmente: la sua carriera è costellata da altrettanti successi e insuccessi, e i successi meno duraturi. La sua conduzione, in sostanza, non soddisfa tutti, il suo nervoso, quando presente, non tranquillizza le massaie.
Meglio quello di Rita Dalla Chiesa, tipo. E anche il suo transito continuo da Mediaset a Rai a Mediaset a Rai non sa abbastanza di stabilità per il popolo degli indici di ascolto, composto da famiglie di settantenni a prescindere dall’età anagrafica (sa anche un po’ di opportunismo, ma chi siamo noi per giudicare, gli affari sono affari). Così, una bella trasmissione scopiazzata da quelle domenicali di Canale 5 infilata nel sabato della RAI era presumibile non facesse piangere di gioia nessuno, a prescindere dagli argomenti e dagli ospiti che, diciamolo, non facevano impazzire, manco sulla carta.
Per cui, prescindiamo dagli argomenti trattati (che, chi se ne frega?) e dal modo in cui (per carità divina) e andiamo al nocciolo del problema; che è costituito non tanto dall’oggetto della protesta, quanto dalla protesta in se stessa. Cioè: dopo che ci hanno ammannito trent’anni di televisione di merda fatta di poppute saltellanti, di litigi in diretta, di scarti obsoleti delle peggio televizione statunitense, solo oggi ci rivoltiamo verso la povera Paola Perego per avere portato sullo schermo la sostanza di cui sono fatti i sogni, ovvero quel mucchio di banalità fumanti di cui è composta la nostra attuale cultura massmediata? Che dallo schermo si trasferisce ai bar e di qui nelle scuole?
Ci sembra ingiusto far ricadere la colpa di trent’anni di veline, di gabibbi, di scosciate, di meteo allarmistici, di spot inframmezzati dai film e di palinsesti basati sulla raccolta pubblicitaria sulle responsabilità di una sola conduttrice, insomma. Sarebbe a dire: ma solo lei, deve pagare? E allora, gli autori? E i dirigenti che hanno discusso di come inserirla nelle fasce orarie adatte allo spot del pannolino della macchina sportiva del tegolino per massimizzare il profitto? E i pubblicitari che si affidati ad un simile veicolo di scarsissima levatura per infilarci dentro i loro preziosi prodotti, mettendo a repentaglio il loro sempre più magro salario, allora? Dove erano costoro? Dove i giornalisti che hanno pubblicizzato la cosa? Perché gli ospiti decotti invitati non hanno telefonato per declinare gentilmente l’invito, “scusate, ma a me già non mi si fila più nessuno, figuriamoci se vengo lì a inchiodare la mia bara”? Perché Lucio Presta caccia fuori simili schifezze? La risposta a tutte queste domande è l’ultima, e definitiva, domanda: ma perché non devono pagare anche milioni di telespettatori che, all’ennesima porcata che entra nel salotto buono di casa attraverso l’etere, non hanno avuto la forza di lanciare il televisore dalla finestra?
E perché poi non l’hanno fatto prima? No: devono pagare tutti, i telespettatori soggiacenti per prima, perché loro è la massima colpa. E la miglior punizione sarebbe non già la chiusura, ma il moltiplicarsi di programmi così straordinari nel palinsesto. A tutte le ore, tutti i giorni, fino a invadere anche il terreno riservato alle repliche della Signora in Giallo. C’è poi da riservare la massima pena comminabile a tutti quelli che invece protestano che la RAI con simili programmi viene meno alle sue funzioni di servizio pubblico, di televisione di Stato. Costoro probabilmente hanno visto un appannarsi delle funzioni cognitive dal 1990, anno di entrata in vigore della Legge Mammì che sanciva la vittoria definitiva dell’impero culturale ed economico berlusconiano: via la televisione costruita sul modello BBC, istruire informare divertire, ora c’è solo intrattenere e vendere. Con il canone che viene esatto dallo Stato che nessuno paga e che deve nutrire il palinsesto RAI che, per offerta e dimensioni, è forse comunque il più vario del mondo, e con i soldi della raccolta pubblicitaria che vanno invece a ingrassare le televisioni private (leggi, Mediaset, e basta); spartizione iniqua della quale nessuno vuole mai sentir parlare e che quando il canone lo metti sulla bolletta dell’Enel tutti si lagnano, salvo poi omettere di dire che siccome non lo hanno mai pagato in vita loro non possono poi lamentarsi della qualità delle trasmissioni. Trasmissioni che, peraltro, a occhio e croce diremmo che guardano appunto per lamentarsi.
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