Se digitate su Google “Sì o no” avrete la bella sorpresa di notare come questo quesito, in effetti tra i più antichi del mondo, sia nel mirino del noto (e famigerato) motore di ricerca quasi esclusivamente a proposito del prossimo Referendum costituzionale del 4 dicembre. Nel nostro, ad esempio, le prime tre pagine (30 ricerche) sono quasi tutte così indirizzate, salvo brevi apparizione de “Metodo del sì e no per i Tarocchi”, “Vaccini: sì o no?” “Tacchi: sì o no”, “Pisolino: sì o no”, “Autosvezzamento: sì o no” e “Tiralatte: sì o no?”.
Il che dà una idea ben precisa di quale sia il livello dell’utilizzo della sapienza del Web e di quali dubbi assillino gli italiani: si potrebbe dire che l’80% delle nostre ansie riguardino il trucco e parrucco, la crescita dei figli e la meravigliosa arte dello schierarsi in tifoserie, non importa se politiche, sportive o di altro genere. L’economista Vilfredo Pareto a questo punto potrebbe osservare come l’80% della conversazione generi il 20% del senso a livello globale, mentre il 20% di essa, composta da tutti gli altri argomenti – scienza, tecnica, arte, problemi sociali, economia, filosofia e, insomma, la cultura umana nel suo complesso – generi invece l’80% del senso. Ma sarebbe fin troppo generoso: quell’ottanta per cento di chiacchiericcio Web serve perlopiù per ungere le ruote a chi ci campicchia sopra, e a parte un incessante rumore non genera alcun senso che possa essere riconosciuto come tale in una prospettiva di, poniamo, sei o sette mesi.
Non granché. Eppure, per quanto rumoroso si sia ormai fatto il dibattito attorno al Referendum, e per quanto sia – innegabilmente – complessa la vicenda e complessa la materia che il problema tratta, ben più complessa di quanto non possa essere afferrato dalle menti incolte della maggior parte degli aventi diritto, in fondo non è impossibile fare una semplice sintesi di tutto questo ambaradam e trarre alcune indicazioni di massima per il voto. Partiamo dalla base: la proposta del Sì si fonda sulla dichiarazione della volontà di superamento del bicameralismo perfetto. Ovvero; se oggi Camera e Senato si alternano, si sovrappongono, si oppongono con forze paritarie nelle decisioni da prendere per la vita del Paese, l’idea è che queste vengano prese più rapidamente e con maggiore facilità dalla Camera e il Senato non possa opporsi a tanto.
Questo attraverso quattro leve principali: 1) diminuzione del numero dei senatori, 2) poteri di approvare le leggi (con alcune eccezioni) solo alla Camera, 3) i cui componenti saranno gli unici votati alle elezioni politiche, 4) funzione del Senato quanto a rappresentatività riservata alle istituzioni territoriali, e non già allo Stato inteso come organismo centrale. Oltre a questo, il potere decisionale ed esecutivo del Governo viene accresciuto anche da altre due modifiche: l’una riguardante l’elezione del Capo dello Stato, che viene riservata solo a deputati e senatori con esclusione dei 59 delegati regionali ora chiamati al compito; l’altra, la modifica ai poteri dell’esecutivo con l’introduzione di tempistiche precise per l’adozione dei testi di legge ( voto definitivo entro 70 giorni al massimo), il cosiddetto “voto a data certa” che permette di accelerare l’iter per le leggi ritenute importanti per il programma politico. Insomma; maggiori poteri al Governo e minori restrizioni nel proprio operato. Cioè le cose che si erano cercate di limitare con la nascita dell’attuale Costituzione, pensata in chiarissima chiave antifascista.
I pro: la possibilità di uscire dalla paralisi in cui versa gran parte della nostra vita legislativa, tenuta in ostaggio per anni e decenni da immobilismo e giochi di lobbies di opposizioni abituate alla melina. I contro: maggiore possibilità di fare danni per un governo imbecille e/o criminale. Un possibile contrappeso a questo rischio viene indicato nella maggior partecipazione dei cittadini grazie all’introduzione di due altre modifiche. La prima riguarda le leggi di iniziativa popolare, per le quali oggi servono 50.000 firme, ma poi non se le fila nessuno, mentre con la Riforma l’asticella si alzerebbe fino a 150.000 firme, con l’obbligo però di voto e discussione in Parlamento. Leggesi come: blocchiamo la possibilità che qualsiasi imbecille intasi con miriadi di proposte di legge la vita parlamentare, e al tempo stesso l’obbligo di voto e discussione non significa che poi non le cestineremo ugualmente se del caso.
La seconda è l’introduzione, oltre al referendum abrogativo e a quello costituzionale (appunto oggi si parla di questo) oggi in vigore (per il quale servono il 50%+1 degli ultimi votanti alle Politiche) del referendum propositivo, che cioè riguardi la proposta dell’introduzione di leggi (e non solo l’abrogazione) e di indirizzo (o consultivo); quest’ultimo prevede di sondare il parere della volontà popolare riguardo ad un tema importante per la Nazione e in Italia è stato usato riguardo al rafforzamento politico delle istituzioni comunitarie (1989) e per chiedere, nel 1946, se si preferisse la Monarchia alla Repubblica. Dal momento che modalità ed effetti di queste consultazioni, ovvero quali capacità avrà effettivamente il cittadino grazie ad esse, dipenderanno dalla promulgazioni di due successive leggi (una ordinaria e una costituzionale), votare oggi per il sì o per il no a proposito di questo punto significa firmare una cambiale in bianco.
Un altro aspetto importantissimo della Riforma è quello che vede di fatto aumentare, e di molto, il potere dello Stato centrale a scapito di quei poteri di governo e legislativi che, storicamente o per decisione politica, erano oggi assegnati alle autonomie locali. L’abolizione delle Province, venduta come decisione motivata dal risparmio, è indice chiarissimo di questa volontà. Ancora più importante è la riattribuzione allo Stato della stragrande maggioranza delle competenze legislative, riscrivendo l’articolo 117 della Costituzione e strappando alle Regioni quelle materie “concorrenti” nelle quali potevano avere voce in capitolo fino ad oggi. L’unica legislazione di principio, la dorsale, insomma, resterebbe allo Stato; alle Regioni solo alcune competenze legislative specifiche e ben delimitate, riguardanti problemi tecnici legati al territorio quanto a salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, istruzione ed ordinamento scolastico, sempre beninteso nei solchi di leggi quadro insuperabili.
Anche perché ci sarebbe l’introduzione di una clausola di supremazia grazie alla quale sarebbe possibile fare carta straccia di leggi e leggiucole che andassero contro quello che sarebbe inteso come interesse nazionale, ovvero, la volontà politica ed esecutiva del Governo in carica; e se a questo si aggiunge la molto minore rappresentatività delle Regioni nel dibattito parlamentare, grazie alla fine del bicameralismo perfetto, si ottiene un quadro chiarissimo. Ovvero: prendiamo atto che il decentramento è stato un esperimento fallimentare, costato una montagna invalicabile di burocrazia, con costi in costante crescita che hanno raggiunto livelli grotteschi e ha consentito, anziché un governo più capillare del territorio, la creazione di una miriade di potentati controllati da interessi economici locali, di lobbies, di malaffare, di campanilismi deteriori e arcaici capaci oltre tutto di creare politici rappresentativi, di nuovo, non già di interessi collettivi ma di interessi esclusivi del territorio che li abbia generati da inviare a Roma a fare da tappo per la politica nazionale.
A volerla leggere come va letta, è il superamento delle istanze locali e delle piccole mafie territoriali, assieme al rischio di ignorare le volontà espresse dai cittadini nella loro sostanziale diversità di vedute e di necessità. Pregi e difetti; dare due coltellate alla democrazia per praticarle un salasso che si spera rimetta in piedi il paziente. Ma forse, possiamo fare una sintesi ancora maggiore. In generale, la Riforma insegue l’idea di un progetto grossomodo alla britannica nell’attribuzione allo Stato centrale di maggiori poteri per assicurare una maggiore governabilità, a scapito della paritaria possibilità delle istanze territoriali e delle idee oppositive di far valere i propri diritti e le proprie idee.
Ed è comprensibile che in molti parlino di un pericolo di fascistizzazione e addirittura dell’attuazione del Piano della P2, anche se crediamo che le volontà non vadano in questa direzione ma piuttosto in quella idea targata un po’ Destra, un po’ Confindustria, un po’ Socialismo statalista secondo la quale il cittadino non sa bene quale sia il suo bene ed è meglio che non se ne impicci troppo; una idea che, dati i risultati degli ultimi 50 anni, potrebbe anche essere valutabile, anche se ci fa democraticamente abbastanza orrore. E come già al tempo di Montanelli, non ci resta che turarci il naso e valutare una ultima scelta, in questi semplici termini: lasciando le cose esattamente come stanno, le cose andranno come sempre sono andate, e l’Italia sta sicuramente andando lentamente a fondo.
Cambiando qualcosa, c’è la possibilità che qualcosa cambi, il che vorrebbe dire che le cose potrebbero restare uguali, migliorare o anche peggiorare, per andare a fondo velocemente. Ovvero, il cittadino italiano è chiamato ad una scelta: peggiorare le cose lasciandole accadere, o assumersi la responsabilità di un rischio che lo vede coinvolto in prima istanza. E sappiamo tutti quale sia la propensione dell’italiano medio in termini di assunzioni di responsabilità personale.