Furono tempi cupi. Sul finire del ‘38 l’indignazione e la condanna internazionale erano rivolti all’Italia fascista. Dove il regime pianificò il tradimento verso una minoranza di suoi cittadini. Non si trattò solo di uno dei tanti pogrom della storia ma di qualcosa di molto più criminale e subdolo. Intanto, una parte del mondo guardava con sempre maggiore ammirazione al lato oscuro del male, incarnato da Hitler e Mussolini. La tragedia della guerra era alle porte. Le leggi razziali entrarono in vigore e lo spirito dell’antisemitismo aleggiava da tempo nella società, spadroneggiando perfidamente in un silenzio assordante, rotto soltanto da voci solitarie che tentavano di squarciare il velo dell’indifferenza. E nessuno impedirà al nazismo di dare sfogo ad un piano di sterminio meticolosamente implementato. Il motivo per cui non scattò allora una repulsione pari e contraria nei confronti di ideologie aberranti è presto detto dalla senatrice a vita e sopravvissuta ad Auschwitz Liliana Segre: «L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori».
Molti dei complici della macchina sterminatrice della Shoah non hanno mai pagato per le loro colpe, che vanno ben oltre l’egoismo. Delatori. Spie. Aguzzini. O semplici ingranaggi di una visione mefistofelica. A loro deve essere rivolto il disgusto della memoria. La storia tuttavia ci ha lasciato anche altro. Le luci che hanno acceso la speranza, i “campioni” di altruismo. Coloro che chiamiamo “Giusti tra le nazioni” (chasidé ummot ha-olam) sono uomini e donne non ebrei che hanno rischiato la propria vita per salvare chi era perseguitato dal totalitarismo. Sono soccorritori, l’ultima speranza reale, il faro della solidarietà per naufraghi alla deriva in un mare in tempesta. È bastato anche il salvataggio di una sola vita, come insegna il Talmud, per dedicare a questi “né santi né eroi”, ma coraggiosi illuminati, il titolo di eterno ringraziamento. A custodire, ricostruendole minuziosamente, quelle pagine di fratellanza, talvolta dimenticata o sconosciuta, ci pensa da anni con un prezioso lavoro (tutto dedicato all’Italia) la storica Liliana Picciotto e poi, ovviamente, la commissione speciale di un dipartimento dello Yad Vashem, il memoriale di Gerusalemme per il ricordo delle vittime della Shoah. Dove la “memoria del bene”, per la tenace volontà di Moshe Bejski che intraprese una campagna personale in favore del riconoscimento del ruolo dei giusti affrontando non poche reticenze, ha trovato un giardino in cui piantare, radicando a terra, e far ramificare, in cielo, la loro storia. Un luogo aperto in Israele nel 1962, dove ogni albero ricorda una persona o una famiglia che si è prodigata per aiutare almeno un ebreo dalla ferocia nazista. Piante comuni e vigorose, resistenti alle stagioni estreme, che offrono un’immagine avvolgente della coscienza di chi non ha accettato la crudeltà spietata.
I Giusti tra le nazioni sono oltre 28.000 in tutto il mondo, di questi circa 800 italiani, 162 i toscani. Durante gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale furono molti quelli che disinteressatamente si dedicarono ad aiutare chi ne aveva bisogno.
Per assegnare il titolo è previsto un iter lungo e complesso, selettivo: la commissione presieduta, storicamente, da un ex giudice della Corte Suprema israeliana vaglia attentamente le candidature, seguendo un rigido protocollo fatto di ripetute verifiche e incroci di testimonianze. Al termine del procedimento è prevista una cerimonia che si svolge a Gerusalemme, durante la quale il giusto, se è ancora in vita, o in caso contrario i familiari, ricevono un diploma d’onore e una medaglia al valore. E i loro nomi sono incisi sui muri dello Yad Vashem. Per ogni Giusto riconosciuto ufficialmente ci sono molti altri che non saranno mai insigniti di tale onorificenza e le loro gesta rimarranno nell’anonimato, o forse in futuro, speriamo, vedranno e vivranno di una nuova luce grazie a persone come Gabriele Nissim, scrittore e fondatore dell’associazione Gariwoche si occupa della loro ricerca e della divulgazione delle loro storie tra i giovani.
In questo contributo relativo alla Toscana, ho voluto mappare l’atlante di personalità famose e conosciute già ai tempi accanto a persone qualunque che dal ’43 al ’45 seppero distinguere tra ragione e odio, riscatto e incomprensione. E l’ho fatto raccontando le loro storie come in un racconto di quegli anni. Un periodo che è stato drammatico, proprio alla vigilia della liberazione dal nazifascismo che porterà poi a ripudiare quel pensiero nefasto che voleva imporci la divisione e la classificazione per razza. E che con la promulgazione delle criminali leggi razziali nel 1938 macchiò indelebilmente la storia del nostro Paese.
Questo articolo è una breve introduzione dell’autore al libro “Chi salva una vita – in memoria dei Giusti toscani” giunto alla seconda edizione (la prima è del 2022) editato dal Consiglio Regionale della Toscana nelle Edizioni dell’Assemblea, continuazione logica e aggiornata del libro “Gino Bartali e i Giusti toscani” pubblicato a gennaio 2014 dalla casa editrice ETS di Pisa.