(sempre meno) Social network…

facebook.comAvete presenti quelle feste perpetue alle quali tutti vi assicurano che c’è un sacco di mossa, che non potete non andarci! Che non avete mai visto niente di simile? E poi, quando alla fine – voi, piccoli snob – vi decidete, trovate tutti abbandonati sui divanetti a fare da tappezzeria, e al vostro sopracciglio interrogativo alzato c’è sempre, sempre quello che vi dice, eh, adesso li vedi così, ma fino a poco tempo fa, sapessi, che sfortuna… ? Ecco; i pochi social network che parlano italiano – Linkedin, Twitter, specialmente Facebook – per chi dovesse approdarvi adesso sono un po’ come questi ameni ricevimenti. Vale a dire: sempre meno social, sempre meno network, e oltre la metà della gente che ci circola è lì per vendere le bibite.

Un po’ come succede, mutatis mutandis, alle fiere: dapprima non ci va nessuno, poi diventa un bel ritrovo e suscita interesse, quindi arrivano gli espositori; alla fine sono solo espositori e nessun compratore e la fiera muore, e per ultimi se ne vanno i venditori dei chioschi e le donne delle pulizie, quando ormai i panini giacciono invenduti. Oggi, Facebook sarebbe irriconoscibile ai primi utenti che vi si sono iscritti per ritrovare (spettegolare su) i vecchi compagni di scuola del college. C’è da dire che da noi questa non è mai stata la funzione del social; perlopiù era un modo per farsi i cavoli degli altri e mettere una pezza a quel doloroso bisogno di attenzione che in quanto tale può essere soddisfatto dal postare una foto in cui ti sbaffi un bigné e sotto tutti scrivono, come sei bella! Senza che ci sia alcun nesso tra le due cose. A meno che il complimento gratuito non lo si consideri un modo strepitosamente efficiente per rimorchiare (ok, è così. Cioè, si considera tale, e triste a dirsi a volte addirittura funziona).

I primi a scoprire queste nuove frontiere della cibernetica sono stati, come è ovvio, i giovani, nativi digitali o quasi, desiderosi di trovare nuove terre da esplorare dopo l’orribile ingessatura provata in lande semidesolate come MySpace; quindi la festa è iniziata, giochini online, foto, video e chat! E quant’altro possa grattare i pruriti tardo adolescenziali. Poi, a questo primo contingente si sono uniti i più curiosi tra i trenta – quarantenni, poi i genitori del primo contingente per tenere d’occhio lo scaglione dei più giovani, e da qui apriti cielo, il dado era ormai tratto. Se non visitate Facebook da cinque o sei anni, preparatevi: salvo quella percentuale di irriducibili del Web che si godono praticamente ogni cosa, la maggioranza è ormai composta dalla fascia quarantacinque – sessanta in fase di demolizione psicorelazionale avanzata e frequenta i social con due scopi principali: rimorchiare, e lagnarsi della propria solitudine. O un mix di questi.

Così, Linkedin non è mai partito, Twitter è praticamente rimasto una palude e Facebook va voltando i piedi all’uscio, con una frequentazione che ogni anno va riducendosi (il 2015 ha visto metà della frequentazione del 2014, nel 2016 ulteriori defezioni); e il posto di chi se ne va o non collabora è stato colonizzato con prepotenza da chi desidera sfruttare commercialmente la struttura (tornate un attimo alla metafora della fiera di poco sopra: ci siete?). Tra questi, quasi tutti gli organi di informazione, che hanno – per motivi di costi, ma anche di inefficienza del mezzo – progressivamente abbandonato la carta e disatteso i propri siti, per venire a lavorare, in modo molto diverso dal passato, sui social. Con articoli usa e getta, rapidissimi, volatili, costruiti al 90% attorno al titolo e alle logiche di click baiting; molta immagine, poca informazione, nessun approfondimento. Questo, secondo molti osservatori internazionali, l’evoluzione più recente del giornalismo, ormai sempre più controllato e dipendente dal mezzo che lo veicola, anziché il contrario (del resto, cosa diceva McLuhan a proposito del mezzo e del messaggio?); e non è una cosa allegra, se si pensa che colossi come Google, Apple, Facebook, Twitter, Microsoft, eBay e Amazon detengono ormai la quasi totalità degli spazi espositivi possibili online e quindi sono perfettamente in grado di fare il prezzo e le regole del passaggio di qualsiasi tipo di informazione (non parliamo di quelle con finalità commerciali). Eh già: perché se oggi non piaci a Google o gli sottrai una fetta di introiti potenziali, sei morto, puff, sparito dal cosmo Web.

E domani sarà la volta di Facebook, mentre Amazon già decide in toto chi partecipa o no alla festa. Vedete voi se è possibile o meno far vivere la libera informazione in regime di monopolio assoluto e senza appello. Poi, ci sono i più scafati, quelli che guardano davvero oltre, che rilevano come, in fondo, si stia già sviluppando una simbiosi insolubile tra media in decadenza (malato, ma come certi dinosauri o alberi giganteschi, troppo scemo per accorgersene, ancora) e messaggio: fatevi un giro su Facebook e Twitter e vedete se non è vero che una buona metà degli spazi (ovvero, quelli non occupati da sedicenti modelle in cerca di riconoscimento, piagnistei e rimorchi vari) è composto ormai da media che cercano di veicolare la propria pubblicità per sopravvivere e altri vari venditori (primi tra tutti, quelli che come prodotto hanno la politica), incastrati tra di loro in una lotta per la sopravvivenza degna di un sottobosco tra specie arboree; nessuno dei due fenomeni, a breve, potrà sopravvivere senza l’altro. E arriverà fatalmente il momento in cui qualcuno, ultimo ad iscriversi, arriverà ad una fiera in cui i panini giacciono invenduti nei chioschi, e qualcuno fatalmente gli dirà: eh, adesso lo vedi così, ma sapessi, un tempo…

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