Segnalati abusi a Sollicciano, Caputo (L’Altro diritto): “Parlarne sgretola la violenza”

Firenze – Sembrerebbero emergere altre violenze nel carcere fiorentino di Sollicciano, dopo l’inchiesta choc emersa l’8 gennaio 2021, nel giorno in cui scattarono le misure cautelari emesse dal gip del tribunale di Firenze nei confronti di 9 agenti di polizia penitenziaria, tre dei quali furono posti agli arresti domiciliari, mentre sei furono interdetti dalla professione. I nove sono accusati di aver dato luogo a due pestaggi, uno avvenuto nel 2018 e uno nel maggio 2019, a carico di detenuti che avrebbero riportato varie lesioni, fra cui la rottura di un timpano e delle costole. L’inchiesta ipotizza i reati di tortura e falso ideologico, in quanto, secondo le ricostruzioni dell’accusa, per coprire il pestaggio avvenuto nell’ufficio di un’ispettrice, quest’ultima avrebbe redatto una relazione in cui dichiarava che i colleghi erano stati costretti a intervenire perché il detenuto aveva cercato di aggredirla sessualmente. Il 29 gennaio scorso i giudici del Tribunale del Riesame di Firenze hanno accolto le richieste della difesa e hanno disposto per i tre la misura dell’interdizione dall’incarico per 12 mesi. Il Tribunale del Riesame ha anche revocato la misura dell’obbligo di dimora per gli altri sei, e ridotto quella dell’interdizione dall’incarico da 12 a 6 mesi. Le nuove violenze che sarebbero emerse nel carcere fiorentino sono state rese note da un articolo del quotidiano Il Dubbio a firma di Damiano Aliprandi.

A segnalare con un esposto alla magistratura quelle che si configurerebbero, se confermate, come altrettante gravissime violazioni dei diritti dei detenuti,  il Centro di documentazione L’altro diritto, che dal 1996 opera all’interno delle carceri toscane. Il Centro di Documentazione è nato presso il Dipartimento di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze e  svolge attività di riflessione teorica e di ricerca sociologica sui temi dell’emarginazione sociale, della devianza, delle istituzioni penali e del carcere.  In seno all’associazione, nel 1997, ha preso vita il Centro di informazione giuridica. L’esigenza principale a cui questa struttura ha cercato di rispondere è stata quella della effettività dei (pochi) diritti dei soggetti detenuti e della loro eguaglianza, della garanzia condizioni minime della vita penitenziaria che sovente, per la fascia più debole della popolazione penitenziaria, vengono meno. Ciò che emerge infatti da varie fonti, ma anche e soprattutto dalle ricerche sul campo , è che spesso i detenuti meno informati sui propri diritti e sui benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, incappano in circuiti penitenziari, come spiegano dal Centro, più lunghi, più duri e con minori prospettive di reinserimento. Per cui, come spiega il dottor Giuseppe Caputo, ricercatore universitario,  membro del Centro, coordinatore della clinica legale sulla “protezione dei diritti delle persone in esecuzione penale”, autore di diverse pubblicazioni sul tema della sicurezza sociale e del trattamento penale della povertà, la mission è in primo luogo quella di informare le persone detenute dei loro diritti ed eventualmente di aiutarli ad accedervi in tutte le circostanze in cui non è indispensabile la mediazione di un avvocato.

Attività di tutela dei diritti e di informazione giuridica a favore dei soggetti detenuti che ha portato l’associazione interuniversitaria a stipulare una convenzione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Toscana, e poi, dato l’estendersi della sua attività, con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il che consente ai volontari di svolgere la loro attività in tutti gli istituti penitenziari ialiani. Ad ora, l’Altro diritto è presente nelle carceri toscane e in quella di Bologna. Chi sono gli operatori che svolgono la loro attività in L’Atro diritto? “Si tratta di studenti delle facoltà di Giurisprudenza di Firenze, Pisa e Bologna, a cui si affiancano anche professionisti volontari, che magari hanno cominciato ad operare nell’associazione come studenti, oltre ad alcuni ricercatori, assegnisti di ricerca e dottorandi”.

Attività che entra dunque nel profondo del carcere, mondo sconosciuto a chi non è addetto ai lavori, tanto che spesso assume la ribalta solo quando emergono casi particolari, sovente violenze, sia in forma di rivolte, che di risse fra detenuti, che di violenze sui detenuti da parte di agenti della polizia penitenziaria. Sotto quest’ultima voce, i casi in Toscana, a partire da quello che ha coinvolto il carcere di San Gimignano in cui l’associazione si è costituita parte civile, sembrano aver subito un’accelerazione inquietante.

“Alcuni numeri possono intanto dare l’idea della composizione sociale di un carcere – spiega Caputo – un detenuto su tre è dipendente da sostanze stupefacenti, o da dipendenze di altro genere, come l’alcol. Moltissimi detenuti manifestano disagi psichici, o pregressi all’entrata in carcere, o indotti dalla permanenza in carcerare. A livello nazionale, 1 detenuto su 3 è straniero, media che diventa 2 su 3 in Toscana”. La media dell’età è nella fascia giovanile della popolazione e se si assommano dipendenze, giovane età, disagio psichico, provenienza da altri paesi che ovviamente complica sia la comunicazione che l’interrelazione fra detenuti stessi e polizia penitenziaria, è comprensibile che la gestione della situazione diventi piuttosto complessa. Il problema è quello, antico e universale, che in mancanza di risposte alla marginalità che spesso deriva dalla povertà, il carcere rappresenta l’unica risposta. Ma non certo la soluzione.

“La mancanza di prospettiva è un’altra delle grandi molle della violenza – dice Caputo – la maggioranza di chi si ritrova in carcere è spesso proveniente da quella manovalanza di piccola criminalità, spesso straniera, che non ha alcuna speranza di accesso alle misure alternative alla detenzione e di reinserimento sociale a fine pena, anche per le limitazioni imposte dalla legge sull’immigrazione. E che non ha niente da perdere. Questo ingenera un circuito di violenze che non si riverbera solo nel rapporto fra agenti penitenziari e detenuti, ma anche fra gli stessi detenuti o gruppi di detenuti, magari divisi per provenienza etnica. Anni fa proprio Sollicciano fu teatro di una maxi rissa con feriti fra il gruppo albanese e marocchino”.

Del resto, continua Caputo, “dal 1999 entro negli istituti penitenziari e credo di potere affermare che, per quanto riguarda la violenza nel rapporto fra detenuto e agente penitenziario, non sia la regola. Posso affermare che la maggioranza degli agenti si comportano con professionalità. Il vero punto è che il carcere è pervaso da una sottocultura in cui il paradigma che regola le relazioni umane è quello della violenza psicologica e fisica, fra detenuti e polizia e fra detenuti e detenuti. Si tratta però di un aspetto su cui l’introduzione del reato di tortura ad esempio, ma anche lo stesso fatto che i casi di abusi emergano e se ne parli sui media, in particolare la televisione, si comincino a raccontare, può avere senz’altro una ricaduta positiva”.

Insomma, la sensazione è che, in particolare quando si tratta di abusi violenti sui detenuti da parte degli agenti ma anche quando emergono storie di violenza fra reclusi, il fatto che non si faccia finta di niente, che la società “civile” non volga più gli occhi da un’altra parte e che ci siano giudici ad interessarsi, dia in qualche modo il coraggio ai detenuti di parlare e di esporsi.

Anche se la battaglia è lunga, e non riguarda solo gli attori principali. Un ruolo determinante ad esempio lo hanno i medici che lavorano dentro le carceri. Del resto, è spesso proprio dal referto medico che si parte per accertare un abuso, “e spesso questo è il primo scoglio – dice Caputo – ma anche in questo ci sono segnali di rinnovamento. Per fare un caso noto, il caso di San Gimignano è nato dal referto di un medico che non si è fatto intimidire da pressioni e minacce. Ricordiamo che ora i medici operativi dentro le carceri non appartengono più all’amministrazione penitenziaria, ma sono medici delle Asl, e sono più slegati dalle logiche di omertà proprie del carcere. Ora si parla e se si parla si sgretola quel clima di impunità che fino ad oggi è stato dominante”.

Segnali che potrebbero rendere i detenuti più determinati a parlare per segnalare casi di abusi provengono dalle stesse notizie di stampa che hanno riguardato il caso ricordato all’inizio dell’articolo, prima delle segnalazioni più recenti di cui parla Aliprandi nel suo pezzo su Il Dubbio, che dovranno ovviamente essere verificate dalla magistratura. “Sembra di evincere – dice Caputo – da quanto pubblicato sui quotidiani che ci sia stata una grossa collaborazione all’indagine da parte dell’amministrazione e della stessa Polizia penitenziaria. Insomma, sembra che a Sollicciano non si sia voluto nascondere la polvere sotto il tappeto”.

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