Se Trump vince grazie a Facebook

mad-magazine-donald-trump-coverNarra la leggenda che Facebook, in un impeto di volontà estrema di servizi di socializzazione, abbia pianto la morte di circa due milioni tra i propri utenti, tra i quali in pole position lo stesso proprietario del sito, Mark Zuckerberg. Immediata, ma non abbastanza, la replica: “Per un breve lasso di tempo è stato postato su alcuni account un messaggio in memoria di alcuni utenti. E’ stato un terribile errore che ora abbiamo risolto. Siamo davvero spiacenti per l’accaduto e abbiamo cercato di risolvere il più presto possibile”.
Insomma; la resurrezione in virtuale è un affare da pochi minuti e si risolve con un post nemmeno tanto visibile: ad onor del vero, non essendo direttamente interessati se non avessimo letto di questo fatto dai giornali non ce ne saremmo mai accorti, con buona pace della politica di public relations del Social per eccellenza. Politica che fa acqua anche nel momento in cui Zuck si trova a dover rispondere alle accuse di partigianeria che la sua creatura avrebbe avuto a favore di Donald Trump e che avrebbe giocato un ruolo determinante nell’esito delle recentissime elezioni. La replica finemente argomentata e ancor meglio cesellata è suonata così: ““E’ folle pensare che la gente abbia votato in base a notizie false circolate su Facebook. Votano in base alle loro vite reali”.
Vale appena la pena di chiedersi: quali vite? All’apparire dei social networks, la speranza degli scienziati e degli psicologi sociali era che questi contribuissero ad alleviare due sintomi della solitudine: la difficoltà di stringere relazioni, di incontrarsi, che vive l’uomo moderno (per non dire della donna moderna), e la perdita di senso dell’identità che deriva dal non avere voce udibile, di non poter esprimere il proprio sentire in modo raggiungibile dagli altri. Ecco; dopo qualche anno, dietrofront di massa. Il risultato attuale, e non ci sono dubbi a tale proposito, è che le relazioni sì sono aumentate, ma solo nel digitale, e non si sono estese alla vita reale che, addirittura, hanno contribuito ad impoverire; e che le voci oggi sì sono pubblicabili e perciò condivisibili, ma si vanno perdendo nel mare di tutte le altre che si fa ogni giorno più vasto e oltre a ciò quel famoso sentire viene costantemente influenzato da quello altrui in prima battuta, e dalla enorme, laocoontica massa di propaganda, di pubblicità, di pressione sociale generata ogni minuto dai social. Molto spesso a pagamento, ancor più di frequente per un effetto di risonanza che trae le sue radici nel bisogno, antropologicamente atavico, di fare gruppo, di accodarsi. Diciamo le cose come stanno: Facebook ha favorito Trump, eccome.
E a Menlo Park lo sanno benissimo. Tanto bene che l’anno scorso, accusati di prendere invece le parti dei democratici, hanno pensato bene di licenziare un bel po’ di giornalisti ed editor – l’americano colto come abbiamo visto facilmente avrebbe parteggiato per i Clinton – affidandosi ad un algoritmo, impersonale, logico, razionale. Difatti: stavolta sono i democratici, a lamentarsi. Come mai? Perché dicono che Trump sul social è stato molto più visibile dell’antagonista, e questo ha spinto molti indecisi a votare per lui. Sapete una cosa? Hanno perfettamente ragione. Anche senza perderci dietro ad analisi statistiche, che risulterebbero in ogni caso vivamente falsate per eccesso o per difetto dal tanto parlare sopra, attorno e in merito alle analisi statistiche, quello che è successo è molto evidente. Tutti e due i rivali hanno investito in una campagna di propaganda, pagando con moneta sonante le pubblicazioni di quello che pensavano di dover dire sui vari media. Su questo, non ci piove. Solo che nessuno dei due – sì, ci giureremmo, neppure il vincitore – avevano riflettuto sull’effettivo modo di funzionare dei social, che amplificano a dismisura non tanto le notizie in quanto informazione, ma in quanto pettegolezze, diffusione del ridicolo, messa alla berlina, critica, sberleffo, e via di questo passo. E in questo senso, Trump ha avuto molto più da regalare al mondo.
Un po’ per volontà, un po’ per caso e un po’ per pura natura, il volto che ha mostrato ai media – tutti i media – è risultato molto più carnevalesco, ridicolo e, insomma, interessante per passare il tempo rispetto a quello della sua anodina rivale Clinton; quindi, come dire, è passato di più sul palinsesto. E tutti hanno pensato: oh, fa il pagliaccio e più andiamo avanti più tutti se ne stanno accorgendo, lasciamolo fare che si impiccherà da solo con questa corda! Bene; era un’ottima ipotesi. Peccato che alla prova dei fatti si sia sgretolata come un castello di sabbia. Perché le sparate buffonesche, evidentemente studiate apposta per fare presa nelle orecchie e negli occhi di un pubblico ben diverso da quello della tecno intellighenzia su cui fanno presa i democratici, hanno messo radice e sono state prese per buone. Non è una cosa nuova: se arriva uno e promette un milione di posti di lavoro, tirati fuori a mo’ di coniglio dal cilindro, l’utente critico si dirà: ma che cretinata, bum! Mentre l’utente medio, che magari il posto di lavoro non ce l’ha, questo passaggio mentale molte volte non sarà in grado di farlo. Perché non avrà voglia di farlo, a dirla tutta. La cretinata, pur tale, lo deresponsabilizza, gli regala un po’ di speranza, lo aiuta ad arrivare a sera sentendosi meno fallito.
E così via. Ecco; oggi facciamo la conta di chi ha avuto torto e chi ragione, di chi ha avuto merito e chi ha sbagliato. Tutto quello che si vuole, però ancora siamo in campagna elettorale – per sempre, verrebbe da dire, ormai – e risulta difficile dire papale papale che di fronte alla scialbezza del programma elettorale della Clinton, anche l’altrettanto scialbo programma elettorale Trump – tra i due, non è che stiamo parlando esattamente di un nuove New Deal, eh – è risultato più gradevole e di maggiore impatto su media abituati a diffondere con maggior vigore le cazzate più grosse, e più votabile da un pubblico che vuole sentirsi raccontare dette cazzate. Poi verranno le meravigliose analisi dei tanti opinionisti, che la gente ha votato per protesta (dove l’abbiamo già sentita? Uhhmmm…), che gli elettori sono stati manipolati, e bla bla bla, tutte cose che vanno bene per i nostri intellettualoidi prestati ad ogni campo dello scibile umano per riempire qualche riga. La verità è che le persone, a torto o a ragione, votano secondo i bisogni che hanno, e chi è più capace di intercettarli, per finta o per davvero, viene favorito alle urne. E invece di affidarsi alla magia dei social e dei guru del sondaggio e del marketing, forse i candidati in grado di capire questi bisogni e di trovare soluzioni per soddisfarli, e di comunicarle in modo chiaro e udibile, potrebbero sperare di ottenere soddisfazione in sede elettorale ben più che utilizzando tante meline. Ma queste a quanto pare sono pie speranze.
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