Firenze – Il problema che vede protagonisti i lavoratori della Se.Gi, la ditta appaltatrice dei servizi di portierato e pulizie del Comune di Firenze, è stato al centro della commissione lavoro che si è tenuta ieri a Palazzo Vecchio. Un problema che riguarda la non corresponsione degli stipendi per mesi, che si reitera via via da quando la ditta calabrese ha cominciato ad operare. Ditta che non è nuova a queste problematiche, dal momento che è balzata all’onore delle cronache nazionali per ragioni legate agli stipendi dei lavoratori da Cosenza ad Aosta, dove si è giunti alla risoluzione del contratto. “Uno stillicidio – dice una lavoratrice – che si protrae da mesi”. Perché spesso gli stipendi “compaiono” a seguito di notizia data in aula consiliare, per poi “scomparire” nuovamente nei mesi successivi. E non si tratta solo di stipendi, perché dubbi vengono avanzati anche sui contributi.
Ma la questione che emerge, come dicono Giuseppe Cazzato dei Cobas e Stefano Cecchi, Usb, è più generale e riguarda tutti gli appalti. Infatti, sono innumerevoli i casi in cui i lavoratori lamentano trattamenti non rispettosi dei diritti del lavoro, che spaziano, appunto, dal pagamento “non tempestivo”, al mancato pagamento, alla mancanza dei contributi, alla discrepanza fra orari dichiarati e reali, fino alla non osservanza puntuale del capitolato d’appalto. Se il problema è generale, tuttavia il paradosso è che la legge, lo stesso Codice degli appalti, regolamenta e dà strumenti che, se applicati, scongiurerebbero i problemi rilevati da lavoratori e stazioni appaltanti. Se da un lato, continuano i sindacalisti, è necessario che venga svolto il controllo, dall’altro è necessario codificare una serie di regole, una sorta di protocollo, da cui non sia possibile discostarsi anche nella progettazione dell’appalto. Infine, con riguardo in particolare a lavoratori che svolgono attività “delicate” (come ad esempio il “portierato avanzato” vale a dire un’attività che sempre di più comprende mansioni che vanno al di là di aprire porte ma contengono la capacità di dare informazioni, filtro degli accessi, uso di strumenti informatici) bisognerebbe interrogarsi sulla funzionalità dello stesso sistema degli appalti. Nel senso che l’assunzione diretta, in particolare di questi tempi che hanno visto la caduta dei molti limiti che gravavano sulle assunzioni, assicurerebbe alla macchina amministrativa lavoratori formati e che avrebbero il vantaggio della continuità. Un dato che si trasforma, in modo spontaneo, in autoformazione e quindi in competenze. Del resto, si tratta spesso o quasi sempre di lavoratori che ormai da vent’anni lavorano fianco a fianco con i dipendenti comunali “diretti”, e che continuano invece a rimanere col fiato in gola per l’avvicendamento delle gare di appalto, che li mettono sempre in condizioni di “precarietà”: ogni tre-quattro anni infatti viene bandita la gara e, se manca la clausola sociale come spesso avviene, non c’è alcuna certezza sulla riassunzione.
Un punto quest’ultimo da cui, secondo i sindacalisti di base, bisognerebbe ripartire per reimpostare tutto il sistema di funzionamento e assunzioni dell’ente pubblico, rivedendo un sistema che ha prodotto da un lato un taglio significativo dei dipendenti comunali (si parla del passaggio da 7mila a 4mila dipendenti diretti in dieci anni) senza, naturalmente, un corrispondente taglio ai servizi. Il che significa, sottolineano Cecchi e Cazzato, che circa la metà dei lavoratori del Comune di Firenze sono dipendenti di cooperative.
Ma è nell’ambito degli appalti stessi che il meccanismo risulta poco “oliato”, come è di tutta evidenza se si indaga sulla numerosità delle proteste dei lavoratori e sempre tenendo conto del fatto che molte problematiche anche gravi rischiano di rimanere nell’ombra a causa della facilità con cui questi lavoratori sono messi sotto “ricatto”, anche non esplicito. Questione di controllo mancato o insufficiente? Sì, rispondono i sindacati, mettendo in luce che la legge prevede una figura ben precisa, preposta da un lato al controllo, ma dall’altro anche alla stessa progettazione dell’appalto. Questa figura è il responsabile unico del procedimento, meglio conosciuto con l’acronimo, Rup. Si tratta di una figura amministrativa che venne introdotta dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, che statuì l’obbligo per le pubbliche amministrazioni italiane di procedere alla nomina di un responsabile del procedimento per ogni opera di loro competenza, attraverso un’unità organizzativa della stessa. L’articolo 10 comma 1 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, detto Codice dei contratti pubblici, specifica che tale responsabile sia “unico per le fasi della progettazione, dell’affidamento, dell’esecuzione”. Si aggiunga che nel sistema ci sono anche i dirigenti nominalmente responsabili del bando, che possono rivestire il ruolo di Rup ma anche no, e qualora siano distinti mantengono tuttavia una serie di responsabilità e corresponsabilità per quanto riguarda appunto la procedura (fra cui ad esempio l’inclusione della clausola sociale e del contratto di riferimento).
Allora, dov’è il problema? Da un lato, è che il Rup controlli effettivamente non accontentandosi di assumere solo dati e documenti formali ma andando a indagare sull’effettiva corrispondenza fra quanto dichiarato e quanto presentato, dall’altro è limitare, secondo i sindacati, la “discrezionalità” nella fase della progettazione dell’appalto. Come dicono dai sindacati di base, è paradossale avere capitolati d’appalto che prevedono clausola sociale ed altri no, o che mettano in gioco la corrispondenza dell’attività svolta con il contratto di riferimento nazionale per alcuni contratti mentre in altri appalti ciò non è contemplato. Una situazione che renderebbe necessaria l’esistenza di un protocollo con regole univoche da cui i vari Rup non possano discostarsi, sia in fase di progettazione che di controllo. Per tutti gli appalti.
Una necessità che, com’è evidente, tende a diventare politica, o almeno “chiama” la politica a esercitare la sua propria funzione non solo di controllo, ma di ricerca di soluzioni. E a proposito di soluzioni, la questione che riguarda i lavoratori di Se.Gi e i loro stipendi è più complessa di quanto possa apparire. Infatti, se da un lato strumenti giuridici e senso di equità potrebbero essere concordi per giungere alla risoluzione del contratto, dall’altro la soluzione, per i lavoratori, potrebbe essere peggiore del male. Infatti, se la risoluzione avvenisse, e se non si tornasse alla gara, il rischio è che la seconda azienda della lista (che subentrerebbe in caso di risoluzione) potrebbe avere già completato il proprio organico. In altre parole, non avrebbe nessun obbligo, in mancanza di clausola sociale, ad assumere i lavoratori che rimarrebbero a casa in seguito alla ventilata risoluzione. Ed è per questo che i sindacalisti di base parlano di appalti “fatti male”, intendendo con ciò che un appalto privo di alcune specifiche (come ad esempio la clausola sociale che obbliga il nuovo vincitore a riassorbire i lavoratori rimasti senza lavoro) peraltro indicate dalla legge, non è di facile gestione. Ne’ per la stazione appaltante, nè, tantomeno, per i lavoratori. Un’altra strada potrebbe essere (anche questa prevista dal Codice degli appalti) quella di passare al pagamento diretto da parte del Comune dei lavoratori stessi, “detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’affidatario del contratto”.
Ciò che è emerso al termine della riunione, cui hanno partecipato svariati consiglieri, tra cui Angelo Bassi (Pd), Tommaso Grassi (Firenze riparte a Sinistra), Miriam Amato (Pap), in cui si sono confrontate posizioni più favorevoli alla risoluzione del contratto con altre più inclini a fare pressione sull’azienda per “obbligarla” al rispetto delle regole fondamentali (fra cui con ogni evidenza una corresponsione tempestiva degli stipendi), è da un lato una nuova interrogazione nel consiglio di lunedì prossimo e dall’altro un’audizione in commissione lavoro. Chiamata per essere ascoltata, stavolta, la Se.Gi.