Ma insomma, chi ha vinto? Assistiamo allo spoglio dei voti ostentando calma ma ribollendo dentro, sempre in procinto di fare una pazzia come Fantozzi arrampicandoci su davanzali sconosciuti per chiedere: ma scusi, a quanto stanno? E beccarci una pappina sui denti, intrappolati dall’altro capo del televisore, o del cavo, distanti da dove tutto si svolge, come il Ragioniere sopra citato durante la visione dell’Armata Kotiomkin. Il paragone della politica, anzi, della elettoralistica italiana col gioco del calcio di certo non sorprenderà nessuno per la sua originalità: intanto è così vecchio che probabilmente Gianni Brera deve averlo scartato per manifesta cariatidezza. Poi, che in Italia qualsiasi cosa – qualsiasi, dalla decisione se partorire o no a cosa si mette nella carbonara – diventi scontro tra opposte fazioni e così si radichi in modo così tenace che a distanza di due tre generazioni nessuno sa più da quale conflitto si era partiti è cosa risaputa da sempre. Stupisce, se mai, lo stupore degli italiani in merito; ecco, questo sì che è veramente curioso.
Ha vinto la Raggi o ha vinto Giachetti o ha vinto Orfini? E se ha vinto la Raggi è più una vittoria dei 5 Strélle o più una sconfitta dei Piddini? Certo, il quesito è di quelli importanti, subito diluito omeopaticamente tra questioni di importanza ben maggiore: la Raggi a chi l’avrà data? E, facciamo un bel referendum per le Olimpiadi romane? E nel caso, ci mettiamo anche dentro qualcosa per risolvere una volta per tutte la questione pancetta / guanciale? Non si sa. E nel caso, è una questione che tocca da vicino anche noi, alla periferia dell’Impero, della nazione che conta? Oppure la nazione che conta è quella che si intravede tra le nebbie e le caligini dei circuiti economico industriali attorno al Po, e quella romana è solo la solita accozzaglia, da secoli replicante di se stessa, di favori, di malaffari, di lotte tra portaborse di clero e di bottega, dai quali scaturiscono e ai quali afferiscono gli altri rivoli ma che risulta sempre staccata dal resto d’Italia? I più lucidi osservano come l’unico dato certo per ora sia una decisa disaffezione al voto, che premia quelli che, ultimi arrivati, in proporzione al voto ancora ci tengono; le forze nuove, radicali, spigolose, non ancora del tutto assorbite dalla macchina del polpettone che rende del tutto indistinguibili le proposte elettorali dell’una o dell’altra fazione. Posto che non si tratti di spianare campi nomadi o candidare note pornodive o togliere tasse annose come quella sulla casa; per fortuna, tutte promesse e proposte elettorali senza alcuna ricaduta concreta sul prosieguo.
Si noti come neppure M5S abbia il fegato di festeggiare, e ci si chieda il perché, a fronte invece dei tanti post inneggianti alla verità e alla conquista che campeggiano sui social network; si noti invece come la stragrande maggioranza delle accuse e delle critiche (anche auto) provenga e sia indirizzata da e per e verso ambienti legati al PD attuale, un baraccone formato da tante idee composite che è virtualmente impossibile decidere quale anima sia rappresentata di volta in volta. Accoltellamenti (neanche tanto) discreti, regolamenti di conti? Certo, in un megapartito che fonde assieme il peggio burocratico dell’ex PCI, dell’ex PSI e della ex DC simili manovre non sono niente di stupefacente. Perlomeno, per chi aveva già l’età della ragione anche solo una decina di anni fa. Ancora maggior stupore ci viene dal fatto che si parli delle pretese nazionalpopolari di Renzi come di un fallimento della Sinistra, come se il PD fosse un partito di sinistra e come se Renzi non fosse un uomo Confindustria (non esattamente una cellula del Partito) da cima a fondo (e come se non lo fossero i precedenti tre, quattro leader politici italiani immediatamente prima di lui in ordine di comparizione). Ma anche qui ci viene in aiuto Fantozzi, con la sua domanda al Megadirettore Galattico: mi scusi Sire, ma non sarà mica… comunista?!?!?
E quello, serafico, mentre il cielo protesta coi suoi strali di fronte ad una simile bestemmia: proprio comunista… no. Però… ecco, più medio progressista. Nel frattempo, in questo clima elettorale che perdura ormai dal Pleistocene, a occhio e croce, ci corazziamo di permeabile indifferenza, pronti a sopportare con francescana rassegnazione il fatto che ogni cosa diventi rapidamente fonte di scontro politico. Le mutandine della Boschi come le magliette di Salvini, i farfugliamenti anglofoni di Renzi come le camiciole fiorate di Formigoni, la morte di Casaleggio e di Pannella e di Buonanno unite sotto lo stesso cassetto di “spendibilità” e soggette ad infinite variazioni di lazzi e frizzi, e finanche la marchettona del Mein Kampf del Giornale; tutte cose che dimostrano come noi si sia un popolo fatto un po’ a modo suo, che ride quando dovrebbe ragionare, ragiona quando dovrebbe ridere, e in generale abbia un senso del disgusto abbastanza addormentato. L’unica soluzione sarebbe l’adesione ai consigli sempre validi dell’Abate Dinouart circa la preferibilità del tacere in ogni circostanza, ma da noi questa cosa non è mai andata tanto di moda; tacere quando si deve parlare, sì, in compenso.